“Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”
Padre Raniero Cantalamessa, ofm cap.
“BEATI I PURI DI CUORE PERCHÉ VEDRANNO DIO”
Trieste, Cattedrale di San Giusto, 4 Marzo 2015
Le beatitudini sono la mappa tracciata da Cristo per chi è alla
ricerca della felicità. I termini beatitudine, beati, beatificare hanno
acquistato un significato troppo ristretto, quasi di gergo religioso, e
questo rischia di far dimenticare il suo significato più universale e
più rispondente alle attese dell’animo umano. Beato significa felice! Le
beatitudini evangeliche sono otto gradini verso la felicità.
Esse non sono un ideale di vita astratto, una specie di codice morale
pensato a tavolino. Prima di essere proclamate, sono state vissute. Le
beatitudini sono l’autoritratto di Gesú! È lui il vero povero di
spirito, il mite, il puro di cuore, il pacifico, il perseguitato per la
giustizia. Noi siamo chiamati dunque, questa sera, a contemplare un
tratto della persona di Cristo. È lui, risorto, vivo e presente qui in
mezzo a noi, che proclama di nuovo la sua grande parola: “Beati i puri
di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5, 8).
Nel pensiero di Gesù, la purezza di cuore non indica, una virtù
particolare, ma una qualità che deve accompagnare tutte le virtù, perché
esse siano davvero virtù, e non invece vizi mascherati da virtù. Il
cuore, nel linguaggio biblico, è il centro più profondo dell’essere
umano, quel nucleo intimo in cui sentimenti, desideri, volere e
conoscere, hanno la loro sede. È da esso, dice Gesú, che dipende la
qualità buona o cattiva di ogni parola e azione dell’uomo:
“Dal cuore provengono propositi malvagi,
omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze,
calunnie. Queste sono le cose che rendono impuro l’uomo; ma il mangiare
senza lavarsi le mani non rende impuro l’uomo” (Mt 15, 19-20).
La beatitudine dei puri di cuore ha, di conseguenza, una gamma di
applicazioni assai vasta. Ciò è stato notato fin dall’antichità da
coloro che l’hanno commentata, fino al più recente di tutti, il nostro
papa Francesco, che ha fatto di essa il tema del suo messaggio per la
prossima Giornata mondiale della gioventù, nella Domenica delle Palme.
La purezza di cuore consiste anzitutto nell’intenzione retta – di
piacere a Dio, non agli uomini – con cui si compiono le proprie azioni. È
quindi l’opposto dell’ipocrisia.
Non a torto, però, la tradizione ha visto in questa beatitudine anche
un invito a coltivare la virtù della purezza, nel senso più comune di
questo termine, in riferimento cioè all’amore e alla sessualità. Io ho
deciso di scegliere proprio questa particolare applicazione e spiego
subito perché. Fino a non molto tempo fa si parlava troppo di
purezza;oggi se ne parla troppo poco, anzi non se ne parla proprio più.
La natura umana però non è cambiata nel frattempo e il problema di
come gestire la propria sessualità rimane uno degli aspetti
esistenzialmente più rilevanti della vita dell’uomo e della donna che
condiziona tutti gli altri. I giovani soprattutto hanno diritto di
conoscere il pensiero di Gesú su un argomento così scottante. Mi
sforzerò perciò di mettere in luce che cosa la parola di Dio ha da dire
all’uomo d’oggi in fatto di purezza e impurità e che Gesú ha racchiuso
nella beatitudine dei puri di cuore.
- Le motivazioni cristiane della purezza
Cominciamo con le motivazioni cristiane di questa virtù. Nella
Lettera ai Galati san Paolo scrive: “Il frutto dello Spirito è amore,
gioia pace, pazienza, benevolenza bontà, fedeltà, mitezza, dominio di
sé” (Gal 5, 22). Il termine greco originale, che traduciamo con “dominio
di sé” è enkrateia. Esso ha una gamma di significati molto
ampia; si può esercitare, infatti, il dominio di sé nel mangiare, nel
parlare, nel trattenersi dall’ira, eccetera. Qui, però, come, del resto,
quasi sempre nel Nuovo Testamento, esso sta a significare il dominio di
sé in una sfera ben precisa della persona e cioè nell’ambito della
sessualità. Lo desumiamo dal fatto che, poco sopra, elencando le “opere
della carne”, l’Apostolo chiama porneia, cioè impurità, la cosa che si oppone al dominio di sé.
Abbiamo perciò due termini-chiave per comprendere la realtà di cui vogliamo parlare: uno positivo (enkrateia) e uno negativo (porneia), uno ci descrive la cosa e l’altro la sua mancanza, o il suo opposto. Ora, ho detto che il termine enkrateia
significa, alla lettera, dominio di sé, padronanza del proprio corpo,
e, in particolare, dei propri istinti sessuali. Ma che cosa significa porneia, il termine da cui deriva pornografia?
Nelle traduzioni moderne della Bibbia, questo termine viene reso ora
con prostituzione, ora con impudicizia, ora con fornicazione o adulterio
e ora con altri vocaboli. L’idea di fondo contenuta nel termine porneia è, tuttavia, quella di “vendersi”, di alienare il proprio corpo, quindi di prostituirsi. (Il termine deriva dal verbo pernemi
che significa “mi vendo”). Adoperando tale termine per indicare
pressoché tutte le manifestazioni di disordine sessuale, la Bibbia viene
a dire che ogni peccato di impurità è, in certo senso, un prostituirsi,
un vendersi.
I termini usati da san Paolo ci dicono, dunque, che sono possibili,
verso il proprio corpo e la propria sessualità, due atteggiamenti
contrapposti, uno frutto dello Spirito e l’altro opera della carne; uno
virtù e l’altro vizio. Il primo atteggiamento è conservare il dominio di
sé e del proprio corpo; il secondo è, invece, vendere o alienare il
proprio corpo, cioè disporre della sessualità a proprio piacimento, per
scopi utilitaristici e diversi da quelli per i quali è stata creata; un
fare dell’atto sessuale un atto venale, anche se l’utile non è sempre
costituito dal denaro, come nel caso della prostituzione vera e propria,
ma anche dal piacere egoistico fine a se stesso.
Quando, nel Nuovo Testamento, si parla della purezza e dell’impurità
in semplici elenchi di virtù o di vizi, senza approfondire la materia,
il suo linguaggio non differisce molto da quello dei moralisti pagani.
Anch’essi infatti usavano correntemente i due termini enkrateia e porneia,
dominio di sé e impurità. Chi si fermasse a questi soli termini, non vi
coglierebbe, perciò, nulla di specificamente biblico e cristiano. Anche
i moralisti stoici ed epicurei esaltavano il dominio di sé, ma lo
facevano solo in funzione della tranquillità interiore, della
impassibilità (apatheia) e dell’autopadronanza, ritenuta il bene supremo.
In realtà, però, dentro questi vecchi vocaboli pagani, c’è ormai un
contenuto del tutto nuovo che scaturisce, come sempre, dal mistero
pasquale di Cristo. Ciò è visibile nel seguente testo di san Paolo, che ebbe un influsso decisivo nella conversione di sant’Agostino:
“La notte è avanzata, il giorno è vicino.
Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della
luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a
orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e
gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi
prendere dai desideri della carne” (Rom 13, 12-14).
Come si vede, alla dissolutezza sessuale viene opposto ormai, come
suo contrario, il “rivestirsi del Signore Gesù Cristo”. I primi
cristiani erano in grado di cogliere questo contenuto nuovo della
purezza, perché esso era oggetto di catechesi specifica in altri
contesti. Esaminiamo ora una di queste catechesi specifiche sulla
purezza, per scoprire il vero contenuto e le vere motivazioni cristiane
di questa virtù. Si tratta del testo di 1 Cor 6, 12-20.
Pare che i Corinzi – forse travisando una frase dell’Apostolo –
adducessero il principio: “tutto mi è lecito”, per giustificare anche i
peccati di impurità. Nella risposta dell’Apostolo è contenuta una
motivazione assolutamente nuova della purezza che scaturisce dal mistero
di Cristo. Non è lecito – egli dice – darsi all’impudicizia (porneia),
non è lecito vendersi, o disporre di sé a proprio piacimento, per il
semplice fatto che noi non ci apparteniamo più, non siamo nostri, ma di
Cristo. Non si può disporre di ciò che non è nostro: “Non sapete che i
vostri corpi sono membra di Cristo […] e che non appartenete a voi
stessi?” (1 Cor 6, 15.19).
La motivazione pagana è, in certo senso, rovesciata; il valore
supremo da salvaguardare non è più il dominio di sé, ma il “non dominio
di sé”. “Il corpo non è per l’impudicizia ma per il Signore!” (1 Cor
6, 13): la motivazione ultima della purezza è, dunque, che “Gesù è il
Signore!”. La purezza cristiana, in altre parole, non consiste tanto
nello stabilire il dominio della ragione sugli istinti, quanto nello
stabilire il dominio di Cristo su tutta la persona, ragione e istinti.
C’è un salto di qualità pressoché infinito tra le due prospettive; nel
primo caso, la purezza è in funzione di me stesso e della mia
tranquillità; nel secondo caso, la purezza è in funzione di Cristo.
Bisogna sforzarsi, certo, di acquistare il dominio di sé, ma solo per
cederlo poi a Cristo.
Questa motivazione cristologica della purezza è resa più impellente
da quello che san Paolo aggiunge nel medesimo testo: noi non siamo solo
genericamente “di” Cristo, come sua proprietà o cosa sua, siamo il corpo
stesso di Cristo, le sue membra! Questo rende tutto immensamente più
delicato, perché vuol dire che, commettendo l’impurità, io prostituisco
il corpo di Cristo, compio una sorta di odioso sacrilegio; uso
“violenza” al corpo del Figlio di Dio. Dice l’Apostolo: “Prenderò dunque
le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta?” (1 Cor 6, 15).
Alla motivazione cristologica, si aggiunge poi subito quella pneumatologica, cioè riguardante lo Spirito Santo: “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi?” (1 Cor
6, 19). Abusare del proprio corpo è dunque profanare il tempio di Dio;
ma se uno distruggerà il tempio di Dio, Dio distruggerà lui (cf 1 Cor 3, 17). Commettere impurità è “contristare lo Spirito Santo di Dio” (cf Ef 4, 30).
L’Apostolo accenna anche a una motivazione escatologica, che si riferisce, cioè, al destino ultimo dell’uomo: “Dio, che ha risuscitato il Signore risusciterà anche noi” (1 Cor
6, 14). Il nostro corpo è destinato alla risurrezione; è destinato a
partecipare, un giorno, alla beatitudine e alla gloria dell’anima. La
purezza cristiana non si basa sul disprezzo del corpo, ma al contrario
sulla stima grande della sua dignità. Il Vangelo – dicevano i Padri
della Chiesa nel combattere gli gnostici – non predica la salvezza “dal”
corpo, ma la salvezza “del” corpo.
Coloro che ritengono il corpo una “veste estranea”, destinata a
essere abbandonata quaggiù, non possiedono i motivi che ha il cristiano
per conservarla con decoro e dignità. I movimenti “libertini” nella
storia sono sorti quasi sempre nel seno di correnti che predicavano uno
spiritualismo radicale, come i catari. Scriveva un Padre della Chiesa
del IV secolo, san Cirillo di Gerusalemme:
“Essendo il corpo unito all’anima in ogni
azione, esso le sarà compagno pure in tutto quello che avverrà in
futuro. Rispettiamo dunque, o fratelli, i nostri corpi e non abusiamone
come di cose estranee; non diciamo, come gli eretici, che la veste
corporea è qualche cosa di estraneo, ma rispettiamola come cosa che
appartiene alla nostra persona. Di tutto quello che abbiamo fatto per
mezzo del corpo dovremo rendere conto a Dio”.
Il poeta Charles Péguy, diceva la stessa cosa con una immagine:
“Così il corpo e l’anima sono come due mani giunte.
E l’uno e l’altra insieme entreranno insieme nella vita eterna.
E saranno due mani giunte
per qualcosa infinitamente più grande che la preghiera…
O tutti e due insieme ricadranno come due polsi legati.
Per una cattività eterna”.
E l’uno e l’altra insieme entreranno insieme nella vita eterna.
E saranno due mani giunte
per qualcosa infinitamente più grande che la preghiera…
O tutti e due insieme ricadranno come due polsi legati.
Per una cattività eterna”.
L’Apostolo concludeva quella sua catechesi sulla purezza con
l’appassionato invito: “Glorificate, dunque, Dio nel vostro corpo!” (1 Cor
6, 20). Il corpo umano è dunque per la gloria di Dio ed esprime questa
gloria quando la persona vive la propria sessualità e la sua intera
corporeità in obbedienza amorosa alla volontà di Dio, che è come dire:
in obbedienza al senso stesso della sessualità, alla sua natura
intrinseca e originaria che non è quella di vendersi, ma quella di
donarsi.
Tale glorificazione di Dio attraverso il proprio corpo non esige la
rinuncia all’esercizio della propria sessualità. Nel capitolo
immediatamente successivo, cioè in 1 Cor 7, san Paolo spiega,
infatti, che tale glorificazione di Dio si esprime in due modi e in due
carismi diversi: o attraverso il matrimonio, o attraverso la verginità.
Glorifica Dio nel suo corpo la vergine e il celibe, ma lo glorifica
anche chi si sposa, purché ognuno viva le esigenze del proprio stato.
- Purezza, bellezza e amore del prossimo
Nella luce nuova, scaturita dal mistero pasquale, l’ideale della
purezza occupa un posto privilegiato in ogni sintesi della morale
cristiana del Nuovo Testamento. Non c’è, si può dire, una lettera di san
Paolo in cui egli non dedichi a esso uno spazio, quando descrive la
vita nuova nello Spirito (cf., per esempio, Ef 4, 17-5, 33; Col
3, 5-12). Tale esigenza fondamentale di purezza si specifica, di volta
in volta, secondo i diversi stati di vita dei cristiani. Le epistole
pastorali mostrano come deve configurarsi la purezza nei giovani, nelle
donne, negli sposati, negli anziani, nelle vedove, nei presbiteri e nei
vescovi; ci presentano la purezza nelle sue varie facce di castità,
fedeltà coniugale, sobrietà, continenza, verginità, pudore.
Nel suo insieme, questo aspetto della vita cristiana determina quello
che il Nuovo Testamento – in modo speciale, le Epistole pastorali –
chiama la “bellezza” o il carattere “bello” della vocazione cristiana,
che, fondendosi con l’altro tratto, quello della bontà, forma l’ideale
unico della “buona bellezza”, o della “bella bontà”, per cui si parla
indifferentemente sia di opere buone che di opere belle. La tradizione
cristiana, chiamando la purezza la “bella virtù”, ha raccolto questa
visione biblica, che esprime, nonostante gli abusi e le accentuazioni
troppo unilaterali che pure ci sono stati, qualcosa di profondamente
vero. La purezza infatti è bellezza!
Tale purezza è uno stile di vita, più che una singola virtù. Ha una
gamma di manifestazioni che va al di là della sfera propriamente
sessuale. C’è una purezza del corpo, ma c’è anche una purezza del cuore che rifugge, non solo dagli atti, ma anche dai desideri e dai pensieri “brutti” (cf Mt 5, 8.27-28). C’è poi una purezza della bocca che consiste, negativamente, nell’astenersi da parole oscene, da volgarità e insulsaggini (cf Ef
5, 4; Col 3, 8) e, positivamente, nella sincerità e schiettezza del
parlare, cioè nel dire: “sì, sì” e “no, no”, a imitazione dell’Agnello
immacolato “nella cui bocca non si trovò inganno” (cf 1 Pt 2, 22).
C’è infine – ed è oggi la cosa forse più necessaria e più difficile – una purezza o limpidezza degli occhi e dello sguardo. L’occhio – diceva Gesù – è la lucerna del corpo; se l’occhio è puro e chiaro, tutto il corpo è nella luce (cf Mt 6, 22 s; Lc
11, 34). San Paolo usa un’immagine molto suggestiva per indicare questo
stile di vita nuovo: dice che i cristiani, nati dalla Pasqua di Cristo,
devono essere degli “azzimi di purezza e di sincerità” (cf 1 Cor 5, 8). Il termine usato qui dall’Apostolo – eilikrinéia
– contiene, per sé, l’immagine di una “trasparenza solare”. Nel testo
citato sopra l’Apostolo parlava della purezza come di un’“arma della
luce”.
Oggigiorno, si tende a contrapporre tra di loro i peccati contro la
purezza e i peccati contro il prossimo e si tende a considerare vero
peccato solo quello contro il prossimo. Si ironizza, talvolta, sul culto
eccessivo accordato, in passato, alla “bella virtù”. Questo
atteggiamento, in parte, è spiegabile; la morale aveva accentuato troppo
unilateralmente, in passato, i peccati della carne, fino a creare delle
vere e proprie nevrosi, a scapito dell’attenzione ai doveri verso il
prossimo e a scapito della stessa virtù della purezza che veniva, in tal
modo, immiserita e ridotta a virtù quasi solo negativa, la virtù di
saper dire di no. Ora però si è passati all’eccesso opposto e si tende a
minimizzare i peccati contro la purezza, a vantaggio (spesso soltanto
verbale) di un’attenzione al prossimo.
L’errore di fondo sta nel contrapporre queste due virtù. La parola di
Dio, lungi dal contrapporre purezza e carità, le collega invece
strettamente tra di loro. Basta leggere il seguente brano della Prima
lettera ai Tessalonicesi, per rendersi conto di come le due cose siano
tra loro interdipendenti:
“Questa infatti è volontà di Dio, la
vostra santificazione: che vi asteniate dall’impurità, che ciascuno di
voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza
lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono
Dio; che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello,
perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e
ribadito. Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione.
Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso,
che vi dona il suo santo Spirito. Riguardo all’amore fraterno, non avete
bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad
amarvi gli uni gli altri” (1 Tess 4, 3-9).
Purezza e amore del prossimo stanno tra loro come dominio di sé e
donazione agli altri. Come posso donarmi, se non mi possiedo, ma sono
schiavo delle mie passioni? Come posso donarmi agli altri, se non ho
capito ancora ciò che mi ha detto l’Apostolo e cioè che non mi
appartengo e che il mio stesso corpo non è mio, ma del Signore? È una
illusione quella di credere di poter mettere insieme un autentico
servizio ai fratelli, che richiede sempre sacrificio, altruismo,
dimenticanza di sé e generosità, e una vita personale disordinata, tesa
tutta a compiacere se stessi e le proprie passioni. Si finisce,
inevitabilmente, per strumentalizzare i fratelli, come si strumentalizza
il proprio corpo. Non sa dire dei “sì” ai fratelli chi non sa dire dei
“no” a se stesso.
Una delle “scuse” che più contribuiscono a favorire il peccato di
impurità, nella mentalità della gente, e a scaricarlo di ogni
responsabilità è che, tanto, esso non fa del male ad alcuno, non viola i
diritti e la libertà degli altri, a meno – si dice – che si tratti di
violenza carnale. Ma a parte il fatto che esso viola il diritto
fondamentale di Dio di dare una legge alle sue creature, questa “scusa” è
falsa anche nei confronti del prossimo.
Non è vero che il peccato di impurità finisce con chi lo commette.
Ogni peccato produce un’erosione dei valori e tutti insieme creano
quella che Paolo definisce “la legge del peccato” e di cui illustra il
terribile potere su tutti gli uomini (cf Rm 7, 14 ss). Nel Talmud ebraico
si legge un apologo che illustra bene la solidarietà che c’è nel
peccato e il danno che ogni peccato, anche personale, reca agli altri:
“Alcune persone si trovavano a bordo di
una barca. Una di esse prese un trapano e cominciò a fare un buco sotto
di sé. Gli altri passeggeri, vedendo, gli dissero: – Che fai? – Egli
rispose: Che cosa importa a voi? Non sto forse facendo il buco sotto il
mio sedile? – Ma essi replicarono: – Sì, ma l’acqua entrerà e ci
annegherà tutti!”.
C’è da aggiungere che la purezza non predispone soltanto a un giusto
rapporto con se stessi e con il prossimo, ma anche a un intimo e
familiare rapporto con Dio. Lo sottolinea continuamente sia l’Antico che
il Nuovo Testamento. Non ci si può mettere in preghiera con il cuore
impuro; l’esperienza stessa dimostra che è impossibile. Non ci si può
“elevare” a Dio che è spirito, se si è tenuti prigionieri dalla carne
che è materia. Sarebbe come se un uccello pretendesse di prendere il
volo, mentre è stato preso al “laccio” ed è immobilizzato al suolo da un
filo. San Pietro scriveva ai primi cristiani: “Siate moderati e sobri
per dedicarvi alla preghiera” (1 Pt 4, 7).
- Purezza e rinnovamento
Studiando la storia delle origini cristiane, come ho dovuto fare io
per tanti anni, si vede con chiarezza che due furono i principali
strumenti con cui la Chiesa riuscì a trasformare il mondo pagano di
allora; il primo fu l’annuncio della Parola, il kerygma, e il secondo la testimonianza di vita dei cristiani, la martyria. Nell’ambito
della testimonianza di vita, due furono, di nuovo, le cose che
maggiormente stupivano e convertivano i pagani: l’amore fraterno e la
purezza dei costumi.
Già la Prima lettera di Pietro accenna allo stupore del mondo pagano
di fronte al tenore di vita così diverso dei cristiani. “Essi trovano
strano –notava l’apostolo – che voi non corriate insieme con loro verso
questo torrente di perdizione” (1 Pt 4, 3-4). Gli Apologisti –
cioè gli scrittori cristiani che scrivevano in difesa della fede, nei
primi secoli della Chiesa – attestano che il tenore di vita puro e casto
dei cristiani era, per i pagani, qualcosa di “straordinario e
incredibile”. Si legge nella Lettera a Diogneto, un testo di questo
periodo:
“Essi si sposano come tutti gli altri e
hanno figli, ma non abbandonano i loro nati. Hanno comune la mensa, ma
non il letto; vivono nella carne, ma non secondo la carne; dimorano
sulla terra, ma sono, in realtà, cittadini del cielo.”
Un impatto straordinario sulla società pagana ebbe il risanamento
della famiglia, che le autorità del tempo volevano riformare, ma di cui
erano impotenti a frenare lo sfacelo. Uno degli argomenti sui quali san
Giustino martire basa la sua Apologia indirizzata
all’imperatore Antonino Pio, è questa: gli imperatori romani sono
preoccupati di risanare i costumi e la famiglia e si sforzano di
emanare, a tale scopo, opportune leggi, che si rivelano, però,
insufficienti. Ebbene, perché non riconoscere quello che sono state
capaci di ottenere le leggi cristiane presso coloro che le hanno accolte
e l’aiuto che esse possono dare anche alla società civile?
Non bisogna pensare che la comunità cristiana fosse tutta esente da
disordini e peccati in materia sessuale. San Paolo aveva dovuto
riprendere un caso, addirittura, di incesto nella comunità di Corinto.
Ma tali peccati venivano chiaramente riconosciuti come tali, denunciati e
corretti. Non si esigeva di essere senza peccato, in questa materia,
come nel resto, ma di lottare contro il peccato. L’adulterio era
considerato, insieme con l’omicidio e l’apostasia, come uno dei tre
peccati più grandi, tanto da fare discutere, per un certo tempo e in
certi ambienti, se esso fosse o no remissibile con il sacramento della
penitenza.
Ora facciamo un salto dalle origini cristiane ai nostri giorni. Qual è
la situazione del mondo d’oggi, riguardo alla purezza? La stessa, se
non peggiore, di quella di allora! Noi viviamo in una società che, in
fatto di costumi, è ripiombata in pieno paganesimo e in piena idolatria
del sesso. La tremenda denuncia che san Paolo fa dei vizi del mondo
pagano, all’inizio della Lettera ai Romani, si applica, punto per punto,
al mondo d’oggi, specie nelle società cosiddette del benessere (cf. Rm 1, 26-27.32).
È indubbio che certi giudizi della morale sessuale tradizionale
andavano rivisti e che le moderne scienze dell’uomo hanno contribuito a
fare luce su certi meccanismi e condizionamenti della psiche umana che
tolgono o diminuiscono la responsabilità morale di certi comportamenti
considerati, un tempo, peccaminosi. Ma questo progresso non ha nulla a
che vedere con il pansessualismo di certe teorie permissivistiche che
tende a negare ogni norma oggettiva in fatto di morale sessuale,
riducendo tutto a un fatto di evoluzione spontanea dei costumi, cioè a
un fatto di cultura.
Se esaminiamo da vicino la cosiddetta “rivoluzione sessuale” o, la più recente “rivoluzione dei generi” (gender revolution),
ci accorgiamo, con spavento, che essa non è semplicemente una
rivoluzione contro il passato, ma è, spesso, anche una rivoluzione
contro Dio. È l’assurda presunzione umana di saper fare le cose meglio
di come le ha progettate Dio. Non si tratta –si badi bene – di
condannare i tentativi della scienza di migliorare i processi della
natura. Questo è cosa giusta e conforme al volere di Dio che ha creato
l’uomo dotato di intelligenza e di libertà per “dominare la terra” e la
propria stessa natura. Quello che non si può accettare è il tentativo di
stravolgere la natura.
- Sessualità e amore
Ma non voglio indugiare troppo a lungo a descrivere la situazione in
atto intorno a noi, che, del resto, tutti conosciamo bene. A me preme,
infatti, di scoprire e trasmettere cosa Dio vuole da noi cristiani in
tale situazione. Dio ci chiama alla stessa impresa alla quale chiamò i
nostri primi fratelli di fede: a “opporci a questo torrente di
perdizione”. Ci chiama a far risplendere di nuovo, davanti agli occhi
del mondo, la “bellezza” della vita cristiana. Ci chiama a lottare per
la purezza. A lottare con tenacia e umiltà; non necessariamente a
essere, tutti e subito, perfetti. In questo campo, più che altrove, la
misericordia di Dio è sempre pronta a rialzare chi è caduto, perché,
dice un salmo, “egli sa di che pasta siamo formati” (Sal 103, 14).
È questa una lotta antica quanto la Chiesa stessa. Ma oggi c’è
qualcosa di nuovo che lo Spirito Santo ci chiama a fare: ci chiama a
testimoniare al mondo l’innocenza originaria delle creature e delle
cose. Il mondo è sprofondato molto in basso; il sesso – è stato scritto –
ci è salito al cervello, con le conseguenze nefaste che costatiamo
intorno a noi. Occorre qualcosa di molto forte, per rompere questa
specie di narcosi e di ubriacatura di sesso. Bisogna tornare a
proclamare il progetto di Dio sulla sessualità umana che è infinitamente
più ricco e più bello e più rispondente alle aspirazioni dell’uomo e
della donna, di tutte manipolazioni umane.
Il torto più grande che si può fare – e che si fa continuamente –
alla sessualità umana è di separarla dall’amore, di separare l’eros
dall’agape, l’amore di ricerca dall’amore di donazione. L’atto sessuale
diventa fatalmente fine in se stesso, riducendo l’altro a semplice
oggetto del proprio piacere. Nei film e in altri ambiti della vita, si
chiama amore quello che è esattamente il suo opposto, cioè egoismo, se
non addirittura violenza, fino a uccidere una donna e dire che si è
fatto perché si era innamorati. Giustamente papa Francesco, nel suo
messaggio ai giovani, insiste, su questo intimo legame tra amore e
sessualità. Dice:
“Il periodo della giovinezza è quello in
cui sboccia la grande ricchezza affettiva presente nei vostri cuori, il
desiderio profondo di un amore vero, bello e grande. Quanta forza c’è in
questa capacità di amare ed essere amati! Non permettete che questo
valore prezioso sia falsato, distrutto o deturpato. Questo succede
quando nelle nostre relazioni subentra la strumentalizzazione del
prossimo per i propri fini egoistici, talvolta come puro oggetto di
piacere. Il cuore rimane ferito e triste in seguito a queste esperienze
negative […]. Nell’invitarvi a riscoprire la bellezza della vocazione
umana all’amore, vi esorto anche a ribellarvi contro la diffusa tendenza
a banalizzare l’amore, soprattutto quando si cerca di ridurlo solamente
all’aspetto sessuale, svincolandolo così dalle sue essenziali
caratteristiche di bellezza, comunione, fedeltà e responsabilità”.
Lo scopo della sessualità umana è inscritto nel progetto iniziale di
Dio. “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio
e femmina li creò”. L’uomo è creato maschio e femmina per poter essere
“immagine di Dio”, cioè un riflesso di quello che avviene in Dio stesso.
In essa vediamo due persone –il Padre e il Figlio – che, stando l’uno
davanti all’altro come un io e un tu, e amandosi producono (“spirano”)
lo Spirito che è il vincolo d’amore che li unisce. Proprio in questo la
coppia umana è immagine di Dio. Marito e moglie stanno l’uno davanti
all’altro come un io e un tu; sono una carne sola, un cuore solo,
un’anima sola, pur nella diversità di sesso e di sensibilità.
L’amore tra l’uomo e la donna nel matrimonio, o in vista di esso, non
è l’unica realizzazione dell’immagine di Dio (poveri noi se fosse
così!); lo è anche l’amore tra amici, tra fratelli, ogni specie di amore
quando è vero amore. È certo però che l’amore sponsale tra l’uomo e la
donna riveste, in questo, un ruolo unico; non per nulla è la forma di
amore a cui la Bibbia ricorre più spesso per parlarci dell’amore di Dio
per noi.
Il poeta Paul Claudel da questa spiegazione suggestiva del perché esiste “l’altro sesso”:
“L’uomo è un essere orgoglioso non c’era
altro modo di fargli comprendere il prossimo che quello di farglielo
entrare nella carne; non c’era altro mezzo per fargli capire la
dipendenza, la necessità e il bisogno se non mediante la legge su di lui
di questo essere differente [la donna], dovuta al semplice fatto che
esso esiste”.
Aprirsi all’altro sesso è il primo passo per aprirsi all’altro che è
il prossimo, fino all’Altro con la lettera maiuscola che è Dio. Il
matrimonio nasce nel segno dell’umiltà; è riconoscimento di dipendenza e
quindi della propria condizione di creatura. Innamorarsi di una donna o
di un uomo è fare il più radicale atto di umiltà. È un farsi mendicante
e dire all’altro: “Io non basto a me stesso, ho bisogno del tuo
essere”. Se, come pensava Schleiermacher, l’essenza della religione
consiste nel “sentimento di dipendenza” (Abhaengigheitsgefuehl) di fronte a Dio, allora la sessualità umana è la prima scuola di religione.
L’amore ha bisogno –diceva Benedetto XVI nell’enciclica “Deus caritas
est” di avere come orizzonte l’eternità, di essere “per sempre”. La
prima promessa che si scambiano infatti gli innamorati (anche se il più
delle volte se ne dimenticano presto) è: “Ti amerò per sempre”, “sarò
tuo, o sarò tua, per sempre”. (La trasmissione TV da Terni per S.
Valentino).
Quando è sincero e profondo, l’amore, non ha paura di legarsi, anzi
lo desidera e ne sente bisogno. Un grande filosofo, Søren Kierkegaard,
ha scritto: “Soltanto quando c’è il dovere di amare, allora
soltanto l’amore è garantito per sempre contro ogni alterazione;
eternamente liberato in beata indipendenza; assicurato in eterna
beatitudine contro ogni disperazione”.
Il senso di queste parole alquanto ermetiche è il seguente. L’uomo
che ama, più ama intensamente, più percepisce con angoscia il pericolo
che corre questo suo amore, pericolo che non viene da altri che da lui
stesso; egli sa bene infatti di essere volubile e che domani, ahimè,
potrebbe già stancarsi e non amare più. E poiché adesso che è nell’amore
vede con chiarezza quale perdita irreparabile questo comporterebbe,
ecco che si premunisce “legandosi” all’amore con la legge e ancorando,
in tal modo, il suo atto d’amore, che avviene nel tempo, all’eternità.
Domandate, diceva questo filosofo, a dei veri innamorati se la
prospettiva di doversi e potersi amare per sempre è per loro un peso o
non invece suprema felicità.
Oggi ci si domanda sempre più spesso che rapporto ci può essere tra
l’amore di due giovani e la legge del matrimonio e che bisogno ha
l’amore di “vincolarsi”. Così sono sempre più numerosi coloro che sono
portati a rifiutare, in teoria e in pratica, l’istituzione del
matrimonio e a scegliere il cosiddetto amore libero o la semplice
convivenza di fatto. Solo se si scopre, attraverso la parola di Dio, il
profondo e vitale rapporto che c’è tra legge e amore, tra decisione e
istituzione, si può rispondere correttamente a quelle domande e dare ai
giovani un motivo convincente per “legarsi” ad amare per sempre e a non
aver paura di fare dell’amore un “dovere”. Il dovere di amare protegge
l’amore dalla “disperazione” e lo rende “beato e indipendente”, nel
senso che protegge dalla disperazione di non poter amare per sempre.
- Puri di cuore!
Non basta più dunque una purezza fatta di paure, di tabù, di divieti,
di fuga reciproca tra l’uomo e la donna, come se l’una fosse, sempre e
necessariamente, un’insidia per l’altro e un potenziale nemico, più che
un “aiuto”. In passato, la purezza si era ridotta, talvolta, almeno
nella pratica, proprio a questo complesso di tabù, di divieti, e di
paure, come se fosse la virtù a doversi vergognare davanti al vizio e
non, invece, il vizio a doversi vergognare davanti alla virtù. Dobbiamo
aspirare, grazie alla presenza in noi dello Spirito, a una purezza che
sia più forte del vizio contrario; una purezza positiva, non solo
negativa, che sia in grado di farci sperimentare la verità di quella
parola dell’Apostolo: “Tutto è puro per chi è puro!” (Tt 1, 15) e di quest’altra parola della Scrittura: “Colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo” (1 Gv 4, 4).
Dobbiamo cominciare con il risanare la radice che è il “cuore”,
perché è da lì, ci ha detto Gesú, che esce tutto ciò che inquina
veramente la vita di una persona. Gesú ha proclamato: “Beati i puri di
cuore, perché vedranno Dio!”. Essi vedranno veramente, cioè avranno
occhi nuovi per vedere il mondo e Dio, occhi limpidi che sanno scorgere
ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò che è verità e ciò che è
menzogna, ciò che è vita e ciò che è morte. Occhi, insomma, come quelli
di Gesú che vedeva tutte le cose, e in particolare il matrimonio, come
esse erano “al principio”, nell’intenzione di Dio che guardò la sua
creazione “e vide che tutto era molto bello” (Gen 1,31). Con
quale libertà Gesù poteva parlare di tutto: dei bambini, della donna,
della gestazione, del parto. Occhi come quelli di Maria.
Dobbiamo innamorarci della bellezza, ma della bellezza vera, quella
che le creature hanno ricevuto da Dio e che si rivela allo sguardo dei
puri di cuore. La purezza non consiste più, allora, nel dire “no” alle
creature, ma nel dire a esse “sì”; sì in quanto creature di Dio che
erano, e restano, “molto buone”. Per poter dire questo “sì”, bisogna,
tuttavia, passare attraverso la croce, perché dopo il peccato, il nostro
sguardo sulle creature si è intorbidito; si è scatenata in noi la
concupiscenza; la sessualità non è più pacifica, è diventata una forza
ambigua e minacciosa che ci trascina contro la legge di Dio, a dispetto
della nostra stessa volontà.
Così dicendo, ho già introdotto il discorso sui mezzi per acquistare e
conservare la purezza. Il primo di questi mezzi, infatti, è proprio la
mortificazione. La vera libertà interiore che permette di accostare ogni
creatura nella luce, di ascoltare e accogliere ogni miseria, senza,
tuttavia, rimanerne noi stessi inquinati, non è frutto di semplice
abitudine al male. Non si ottiene, cioè, assaporando tutto e cercando di
immunizzarsi, inoculandosi, in piccole dosi, il bacillo del male stesso
che si vuole combattere; ma si ottiene spegnendo in noi il focolaio di
infezione. Si ottiene, insomma, con la mortificazione: “Se, con l’aiuto
dello Spirito, voi fate morire le opere del corpo, vivrete” (Rm 8, 13).
Parlando di purezza, è necessario, credo, ricordare soprattutto un
tipo di mortificazione: quella degli occhi. L’occhio, si dice, è la
finestra dell’anima. Quando ci sono in giro turbinii di vento che
trasportano polvere e foglie, nessuno tiene le finestre della propria
casa spalancate, perché la polvere ricoprirebbe tutto. Colui che ha
creato l’occhio ha creato anche la palpebra per proteggerlo… Viviamo in
una cultura che ha fatto dell’immagine il veicolo privilegiato del
proprio spirito e mentalità. È un diluvio nel quale rischiamo di
annegare tutti. Se vogliamo, in questa Quaresima, fare un digiuno
veramente utile, che sia un digiuno dalle immagini, più che dai cibi.
Ricorriamo dunque alla mortificazione e ricorriamo anche alla
preghiera. La purezza, infatti, è “frutto dello Spirito”, cioè dono di
Dio, molto più che frutto del nostro sforzo, sebbene anche questo sia
indispensabile. Sant’Agostino ci descrive la sua esperienza personale a
questo riguardo. Scrive nelle Confessioni:
“Nella mia inesperienza credevo che la
continenza dipendesse dalle proprie forze e io ero cosciente di non
averne. Ero tanto stolto da ignorare quello che sta scritto e cioè che
nessuno può essere continente se tu non glielo concedi (cf Sap
8, 21). E tu me lo avresti, senza dubbio, concesso, se con il gemito del
mio cuore avessi bussato alle tue orecchie, e con salda fede avessi
gettato in te la mia preoccupazione… Tu mi comandi la castità: ebbene,
concedimi quello che mi chiedi e poi chiedimi quello che vuoi!.”
E sappiamo già che ottenne, in questo modo, la purezza. C’è un nesso
strettissimo tra purezza e Spirito Santo: lo Spirito Santo, infatti, ci
dona la purezza e la purezza ci dona lo Spirito Santo! La purezza attira
in noi lo Spirito Santo, come lo attirò in Maria. Al tempo di Gesù, il
mondo pullulava di spiriti “impuri” i quali agivano indisturbati tra gli
uomini. Quando, dopo il suo battesimo nel Giordano, ripieno di Spirito
Santo, Gesù entrò nella sinagoga di Cafarnao, un uomo posseduto da uno
spirito impuro si mise a gridare: “Che c’entri con noi Gesù Nazareno?
Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei! il Santo di Dio” (Mc 1, 24).
Chissà da quanto tempo quell’uomo era andato indisturbato nella
sinagoga, senza che alcuno si accorgesse di nulla! Ma quando Gesù, che
irradiava la luce e la fragranza dello Spirito, mise piede in quel
luogo, lo spirito immondo fu smascherato, entrò in agitazione, non
sostenne la sua presenza e uscì da quell’uomo. Questo è il grande,
silenzioso, esorcismo, di cui c’è bisogno urgente anche oggi; questo è
l’esorcismo che Gesù ci chiama a operare intorno a noi: scacciare gli
spiriti impuri e lo spirito di impurità da noi e intorno a noi, ridando
ai fratelli, specie ai giovani, la gioia di lottare per la purezza.
dal sito ufficiale della Diocesi di Trieste