Raimondo
Lullo, Il Libro del Gentile e dei tre Savi, a cura di Sara Muzzi,
traduzione italiana di Anna Baggiani (Letture cristiane del secondo
millennio), Ediz. Paoline, Milano 2012, pp. 360, euro 36,00, ISBN:
978-88-315-3926-5.
Il
testo è icona della singolare e per alcuni versi eccezionale attività
intellettuale e pastorale di Raimondo Lullo, impegnato nella Maiorca del
XIII secolo a intessere un dialogo interreligioso tra i tre cristiani,
ebrei e musulmani, dialogo basato sul rispetto della fede dell’altro e
sulla convinzione della possibilità di attingere, attraverso strade
diverse, a una medesima verità.
L’attività filosofica dell’autore, prevalentemente orientata alla ricerca delle “ragioni necessarie” dell’esistenza di Dio comuni alle tre fedi e alla creazione di un metodo razionale, che potesse fungere da strumento di dialogo, trova nel Libro del Gentile e dei tre Savi la rappresentazione narrativa e, per così dire, operativa.
L’attività filosofica dell’autore, prevalentemente orientata alla ricerca delle “ragioni necessarie” dell’esistenza di Dio comuni alle tre fedi e alla creazione di un metodo razionale, che potesse fungere da strumento di dialogo, trova nel Libro del Gentile e dei tre Savi la rappresentazione narrativa e, per così dire, operativa.
Si
tratta, infatti, di un dialogo tra un filosofo (il Gentile), privo di
alcuna fede in Dio e perciò affranto, e tre teologi delle diverse fedi
(i Savi), impegnati in un dialogo fondato sul rispetto reciproco, in cui
vengono mostrati prima i caratteri comuni poi quelli specifici delle
rispettive religioni, attraverso un metodo filosofico razionale
intellegibile per il Gentile e lontano da atteggiamenti di intolleranza.
La
struttura dialettica e la novità del “metodo razionale” di Lullo
guidano anche il lettore contemporaneo alla scoperta del testo che, fino
all’ultimo, non offre soluzioni dottrinali scontate; la struttura
“aperta” (la ricerca della verità da parte del Gentile non sembra
trovare una risposta univoca) ne conferma il carattere dialogico ed è
elemento di grande modernità.
L’introduzione
presenta con chiarezza gli elementi propri del pensiero di Lullo e
dello specifico testo, calati nel contesto culturale in cui opera, con
numerosi affondi di carattere storico-culturale.
- RECENSIONE
Albero
di Lullo, da una
stampa del XVI secolo.
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IL GENTILE APERTO ALLE FEDI
di Gianfranco Ravasi
La
curatrice, Sara Muzzi, mi invia il volume con una dedica essenziale:
«Un Cortile dei Gentili medievale!». A molti lettori è, infatti, nota la
mia iniziativa, sulla scia di un invito inserito in un discorso di
Benedetto XVI, a costituire uno spazio di dialogo tra credenti e non
credenti, ponendolo all'insegna di quell'atrio che nel tempio ebraico di
Gerusalemme poteva ammettere anche i pagani, così che voci e sguardi
s'incontrassero, pur nella diversità delle identità. Chi è mai il
precursore medievale di questa intuizione?
È
un sorprendente e affascinante personaggio del XIII secolo di Palma di
Maiorca, Raimondo Lullo: quand'ero prefetto della Biblioteca Ambrosiana
di Milano, tra i non pochi che chiedevano di attingere a un cospicuo
fondo di codici manoscritti lulliani là custodito c'era Umberto Eco che
mi confessava la sua sconfinata ammirazione per questa figura
proteiforme.
Sposato
con due figli, funzionario del re Giacomo II, cultore di poesia
trobadorica, si converte in seguito a un'apparizione del Crocifisso; si
fa pellegrino, si consacra alla studio dell'arabo e della filosofia e
teologia musulmana accanto a quella cristiana; si ritira su un monte,
viaggia a Montpellier e a Parigi dal re e a Roma dal Papa, cade in
depressione a Genova, ma rianimato dallo spirito del dialogo, si reca in
missione a Tunisi, da dove è espulso e ripara a Napoli.
Si
sposta tra Barcellona, Maiorca, Parigi e Anagni (da Bonifacio VIII),
s'imbarca per Cipro, rientra a Parigi, s'imbarca per una nuova missione
in Algeria ove è imprigionato. Espulso, fa naufragio presso Pisa, corre
dal Papa che è ad Avignone, si reca a Parigi e a Vienna per partecipare
all'omonimo concilio del 1311-12. Si trasferisce a Messina e di lì a
Tunisi e, infine, probabilmente nella sua terra di nascita, muore tra il
1315 e il 1316 ultraottantenne.
In
questa girandola frenetica di viaggi, eventi, incontri e scontri riesce
a scrivere una valanga di testi (ad esempio, quando è a Messina in un
anno, nel 1313, compone almeno una trentina di scritti). Ma la sua
curiosità e l'ansia di confronto interculturale e interreligioso erano
sbocciate in quell'osservatorio privilegiato ove aveva visto la luce,
l'isola catalana di Maiorca protesa sul Mediterraneo con le presenze
vivaci e non conflittuali delle tre religioni monoteistiche:
cristianesimo, ebraismo e islam.
Ora, l'opera Il libro del Gentile e dei tre Savi,
che Sara Muzzi mi ha inviato (con la traduzione dal catalano di Anna
Baggiani, scomparsa durante la stampa del testo) incarna in modo geniale
proprio la passione di Lullo per il confronto tra culture e fedi
diverse. Tra l'altro egli, definito «geniale plasmatore della lingua
catalana», una lingua viva anche da noi ad Alghero, scriveva pure in
arabo, la lingua della "missione", e in latino e aveva costituito una
fondazione per l'insegnamento plurilinguistico perché «tutte le genti si
comprendessero, si amassero e convenissero per servire Dio».
Instancabile,
compose almeno 280 opere inseguendo tutto l'arco dello scibile in un
eclettismo che spaziava dalla teologia alla medicina, dalla filosofia
all'astronomia, dalla logica al diritto, dalla retorica alla matematica,
dalla mnemotecnica alla mistica, dalla politica alla pedagogia e altro
ancora.
Forse ammiccando al Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Abelardo (1141-42), Lullo mette in scena tre sapienti, un ebreo, un cristiano e un musulmano che cercano di dimostrare a un Gentile (un filosofo agnostico) la verità delle loro fedi, aprendo però un percorso teso a convergere verso un unico Credo. Infatti, passeggiando e discutendo, i tre Savi scoprono un prato con una fontana e cinque alberi. Là una misteriosa nobildonna, il cui nome è Intelligenza, li guida in un arabesco metaforico le cui ramificazioni tematiche e logiche si sviluppano proprio lungo quei cinque alberi, dotati di altrettante nuvole di fiori (49 per tre piante, 21 e 7 per le altre). Il simbolismo numerico è dominante e nel lettore crea un senso di spaesamento e di vertigine. Ma l'autore tiene le fila perché si approdi a quella meta unificatrice che non è, però, un sincretismo incolore, bensì la volontà di ricerca e di dialogo permanente nella reciprocità e nel rispetto.
Forse ammiccando al Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Abelardo (1141-42), Lullo mette in scena tre sapienti, un ebreo, un cristiano e un musulmano che cercano di dimostrare a un Gentile (un filosofo agnostico) la verità delle loro fedi, aprendo però un percorso teso a convergere verso un unico Credo. Infatti, passeggiando e discutendo, i tre Savi scoprono un prato con una fontana e cinque alberi. Là una misteriosa nobildonna, il cui nome è Intelligenza, li guida in un arabesco metaforico le cui ramificazioni tematiche e logiche si sviluppano proprio lungo quei cinque alberi, dotati di altrettante nuvole di fiori (49 per tre piante, 21 e 7 per le altre). Il simbolismo numerico è dominante e nel lettore crea un senso di spaesamento e di vertigine. Ma l'autore tiene le fila perché si approdi a quella meta unificatrice che non è, però, un sincretismo incolore, bensì la volontà di ricerca e di dialogo permanente nella reciprocità e nel rispetto.
Scrive, infatti, un esegeta lulliano, Orlando Todisco: «Lullo
riflette a partire dai momenti più alti delle tre religioni. La sua è
una presa d'atto di ciò che le tre religioni hanno saputo produrre, che
egli evoca per risvegliare la coscienza critica e attivare un processo
di crescita verso un'intesa sostanziale tra uomini di razze e di culture
diverse». È, comunque, interessante scoprire l'indicazione della
curatrice secondo la quale nella letteralità del testo, che descrive il
dialogo interreligioso fra i tre monoteismi, si intuisce in filigrana un
metatesto allegorico che introduce l'itinerario dell'anima verso la
conoscenza di Dio sotto la guida dell'arte coi suoi simboli e le sue
metafore da decodificare.
Tanto
rimane da dire su quest'opera, così fluida e rigorosa al tempo stesso, e
sul suo autore, artefice di una "scuola di missione" fondata non
sull'imposizione attraverso la crociata, ma sul confronto intellettuale.
Vorrei solo evocare il suo testamento-confessione, tratto da un'opera
del 1311 ironicamente sottotitolata (il titolo è Phantasticus) «Disputa
del chierico Pietro con l'insensato Raimondo»: «Sono stato sposato, ho
avuto figli, ero adeguatamente ricco, dedito al piacere e alle cose del
mondo. Ho volentieri abbandonato tutto ciò per poter procurare onore a
Dio e beneficio agli altri e per esaltare la santa fede. Ho appreso
l'arabo, più volte sono andato a predicare ai saraceni e per la fede fui
imprigionato, incarcerato e bastonato. Ho faticato per 45 anni a
spingere la Chiesa e i principi cristiani al bene del popolo. Ora sono
vecchio e povero, ma resto della stessa idea e ci resterò fino alla
morte, se il Signore me lo concederà. Tutto ciò ti sembra un'insensata
utopia o non ti sembra tale? Sia la tua coscienza a giudicare...».
da: Gianfranco Ravasi, Il Gentile aperto alle fedi, in Il Sole 24Ore,19 agosto 2012, p.31.