lunedì 16 marzo 2015

LA BEATA LUDOVICA ALBETONI, Terziaria francescana dell' O.F.S. S.Francesco a Ripa, in Roma. Testo di P. Celso L. Cipriani ofm


LA BEATA
Ludovica Albertoni
Terziaria francescana
dell’ O.F.S. di S. Francesco a Ripa
(1473 – 1533)



Ludovica Albertoni nacque a Roma l’anno 1473 da Stefano e Lucrezia Tebaldi. La casa paterna la tradizione vuole che sorgesse nel perimetro dell’attuale chiesa parrocchiale sorgesse nel perimetro dell'attuale chiesa parrocchiale di S. Maria in Campitelli. Difatti nella prima cappella a sinistra, dedicata a S. Giuseppe e alla nostra Beata, si indica ancor oggi un muro di quella casa.
 
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Ludovica non conobbe il padre, perché Stefano Albertoni morì nel 1475, quando la piccina non aveva che due anni. Stefano aprì una serie di decessi famigliari. Nel 1476 morì Simone Tebaldi, nonno materno di Ludovica. Il 31 maggio dello stesso anno, Piermatteo, e una ventina di giorni dopo sua moglie, Perna della Valle, che si era assunto il compito di educare le due nipoti, Ludovica e Laura. La pena più grande di Perna è lasciare le due nipoti. Le raccomanda caldamente alle due zie Tiburzia Leni e Gregoria Eunufri, mogli rispettivamente di Antonio e Raimondo Albertoni.
Perché assunsero tale compito le zie e non la mamma? Lucrezia non seppe rassegnarsi allo stato di vedova venticinquenne. Dopo due anni dalla morte del marito passò a nuove nozze con Pier Paolo Alessi dei Fabi. Da questo momento di lei non si hanno più notizie. Né le due figlie la ricordano.
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Ludovica fu di “eccessiva beltà”. Ma la bellezza per lei non fu mai un pericolo. Quegli anni dell’ultimo scorcio del secolo XV furono tristissimi per la Chiesa e per Roma. La corruzione dilagava ovunque, la fede minacciava di spegnersi. Il primo biografo afferma che per opera delle zie Ludovica riuscì a custodire l’onestà e la religiosità. Poté avere anche una buona formazione intellettuale.
Di questo periodo che abbraccia un ventennio (1473-1493), non sappiamo altro. Quindi possiamo solo concludere che Ludovica fu provata duramente in quegli anni negli affetti più cari. Perse il papà, i nonni e anche la mamma. Sembra che l’emblema della sua vita debba essere la croce della passione e la passione in croce.

A vent’anni Ludovica fu data sposa al trasteverino Giacomo della Cetera. Era l’anno 1943. Secondo l’uso dei nobili di quel tempo lo sposo le fu scelto dai parenti. Dei primi anni di matrimonio sappiamo molto poco. Possediamo un documento del 1496, tra le righe del quale possiamo leggere che forse questo primo periodo di vita comune non fu felice.
Ludovica a ventitré anni detta il suo testamento. Dispone delle sue cose a favore dell’unica figlia che allora aveva di nome Camilla. Vuol essere sepolta in S. Maria in Campitelli. Del marito neppure un cenno. Nonostante tutto però continuò a convivere con lui ed ebbe altre due figlie Silvia e Antonina.

Nel maggio 1506 Giacomo della Cetera si ammalò gravemente. Dettò il suo testamento, sul quale, per contestazioni sopravvenute, pochi giorni dopo dov’è tornare una seconda volta. Per l’eredità la moglie e le figlie dipendevano troppo dall’esclusiva volontà di suo fratello Domenico, il quale farà tanto soffrire Ludovica che aveva l’unico torto di richiedere quel che era delle figlie e suo. Giacomo forse non fu un buon amministratore se dové riconoscere nello stesso testamento che aveva dei debiti verso la moglie, primo fra gli altri la ricostruzione della dote.
Alla fine di maggio o ai primi di giugno di quell’anno morì e fu sepolto secondo i suoi desideri, nella tomba nuova di famiglia a S. Francesco in Trastevere, Si chiude così mestamente la breve e documentata vita matrimoniale di Ludovica Albertoni. Dopo aver salito il calvario del matrimonio, deve ancora salire quello della vedovanza. A trentatré anni vedova, con tre figlie minorenni, con un patrimonio dissestato. Peggiore non poteva essere la sua situazione. 


LOTTE FAMILIARI
DIVIENE TERZIARIA FRANCESCANA  SECOLARE
(1506 – 1520)


E’ tristissimo il capitolo di Ludovica che va dal 1506 al 1520. Nel 1508, dopo una lotta serrata con suo cognato Domenico, può ottenere la ricostruzione della dote ed avere altri crediti gravanti sull’eredità del marito.
Nel 1511 Domenico della Cetera morì. Dopo poco tempo lo seguì nel sepolcro sua moglie Camilla, primogenita carissima di Ludovica. La morte di Camilla riaccese i contrasti tra lei e gli eredi Della Cetera, i quali non intendevano adempire le loro obbligazioni.
Dopo nove anni, nella primavera del 1520, con giudizio arbitrare i nipoti furono condannati a dare alla zia quello che fino allora le avevano negato.  Il patrimonio finalmente riacquistato e il 7 maggio di quell’anno dettò il suo testamento definitivo. Tra le altre cose stabilisce di essere sepolta in S. Francesco a Ripa accanto al marito, abrogando la disposizione testamentaria del 1496.

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Liberatasi da ogni impegno economico vuol dedicare il suo strato vedovile a Dio.
“Nel passato fui più di mio marito che di me stessa, - diceva – onde non potei dedicarmi a te, o Gesù. Ora vivendo tutta me stessa, lascio di essere mia per essere tutta tua. L’odiata vedovanza io abbraccio di cuore per vivere vedova al mondo e farmi sposa della tua santissima croce. La vedovanza è un fertilissimo campo in Santa Chiesa. Io la coltiverò, ma a te la messe a te l’incremento”.
In dolce colloquio con Gesù confessava: “Non potetti conservarmi vergine per obbedire ai parenti. Bramo almeno ora di essere norma di castità. Tu, o Gesù, ispirami i precetti di castità. La carne insidia le vedove. Tu costudisci il mio cuore dalle lusinghe del sesso”.
“Uniscimi a te – pregava – che essendo maestro di castità potrò vivere sicura dalle lusinghe dello spirito tentatore”. A quanti le chiedevano di passare a nuove nozze data la sua giovinezza e la sua “eccessiva beltà”, rispondeva invariabilmente che già era maritata con uno che non l’avrebbe abbandonata mai più. 

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Con ogni probabilità entrò nel Terzo Ordine Francescano nel 1506. Il primo biografo attesta che vi fu ricevuta dal Superiore di San Francesco a Ripa. Prese i suoi impegni con serietà. Lo provano le sue ascensioni spirituali. Elesse suoi modelli da imitare il Padre San Francesco e Santa Francesca Romana.


LE ASCENSIONI SPIRITUALI 
DELLA BEATA LUDOVICA ALBERTONI

Ludovica Albertoni fu terziaria francescana impegnata e santa. Apprese lezioni di francescanesimo dai religiosi di San Francesco a Ripa che in quegli anni davano l’inizio all’opera della riforma dell’Ordine che poi tanto profitto sarebbe stata per la riforma della Chiesa e del popolo cristiano.
Come Vittoria Colonna protesse e aiutò la riforma dei frati minori cappuccini; così Ludovica appoggiò quei figli di San Francesco che poi furono detti della più stretta Osservanza o riformati. Ma il suo appoggio non fu solo fatto di consigli, sarebbe stata ben poca cosa. Volle lei stessa vivere quella vita di fede e rigore che la fece ascendere alle più alte vette della santità. 

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Ludovica aveva l’anima francescana. Piangeva la cecità dei mortali, afferma il suo primo biografo, perché non sanno elevarsi al di sopra delle cose terrene. Il mondo creato, le bellezze della natura, il cielo stellato la elevano a Dio. Ma soprattutto era dotata di un formidabile ardore di amore.

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L’amore la portò a spogliarsi di tutto. Dopo la morte del marito e aver fissato gli interessi delle figlie non volle più fissa dimora. Dette tutto il suo ai poveri tanto da ridursi nell’indigenza. Le figlie e i parenti volevano costituirle una rendita. Non volle mai accettarla. Quel che le offrivano lo riceveva come poverella e voleva dividerlo con i poveri. “Ora si, Ludovica, puoi chiamarti figlia di San Francesco – soleva dire a se stessa – perché essendo egli padre dei poveri, non riconosce per figli che i poverelli”.
Le vesti che indossava non erano certo degne di una nobile romana. Alle figlie che glielo facevano osservare soleva rispondere: “figlie mie, non è una macchia la povertà. Altro non bramo, o Gesù mio, - concludeva – che vivere povera al mondo”.
Con la povertà ritrovò la ricchezza in Dio, nella preghiera. “La preghiera è una scuola di vita – diceva – in essa si impara la dottrina che Gesù ha insegnato, e gli uomini non hanno inteso
L’amore vero è il disprezzo, la vera gloria gli improperi, la vera ricchezza la povertà, il dominio supremo l’obbedienza, delizia ineffabile la penitenza, la glorificazione vera la Croce di Cristo”. Un concetto più alto della preghiera non mi pare che altre anime cristiane abbiano saputo esprimere.

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Dopo la preghiera il suo centro di attrazione era l’Eucarestia. Si comunicava il venedì, il sabato e le altre feste. Ma molto spesso per timore se ne asteneva. Per quei tempi era una vita eucaristica molto intensa. “Quandto mirabilmente tratti i tuoi servi, o Gesù, - soleva ripetere.
Io per me solo bramo mio, Dio, Te solo gusto, Te solo amo, mio bene.
O Gesù sia impresso nell’anima mia il sigillo del tuo amore, affinché nessun amante, fuori di te ammetta giammai il mio cuore”.
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Dalla preghiera e dall’amore a Gesù Eucarestia, scaturiva quella carità luminosa che fioriva al passaggio di Ludovica. Gli amici suoi cari erano i peccatori, i poveri, i malati, le giovani in pericolo di perdere l’onesta. La sua mirabile carità si manifestò in tutta l’intensità dopo il sacco di Roma. 
Dopo quel flagello la miseria materiale e morale della città era inimmaginabile. E proprio dopo quel flagello la carità di Ludovica diventò leggendaria nella storia di Roma. Nei pani da dare ai poveri nascondeva monete d’oro e d’argento lasciando che il Signore si degnasse di curarne la distribuzione secondo la necessità di ciascuno. Da allora cominciarono a chiamarla “madre dei poveri, degli afflitti, dei diseredati”.

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Ludovica aveva coscienza di essere la madre dei poveri tanto da dire: “Dio mi dette molta roba ma privata del marito mi fece madre di molti figli che sono poveri. Per inviarvi a Dio – o mie ricchezze, vi pongo nelle mani dei poveri”. I poveri l’avevano tanto ben capito che incontrandola per le vie di Roma gridavano “viva la mamma dei poveri”.
Tale riconoscimento non la inorgogliva ma le dava nuovo vigore a far più. “O Gesù mio – diceva – ora che non mi resta altro da donare, dono tutta me stessa a te, e mi parrebbe di tradirti se io non ti dessi me stessa”. E’ la parte più difficile nella attuazione della carità.
Nell’esercizio intenso della carità, Ludovica aveva raggiunta la completa adesione alla volontà di Dio e un ineffabile pace interiore. Il suo cuore era sciolto da qualunque affetto terreno, la sua vita, afferma il suo primo biografo, si era trasformata in continua estasi.

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A causa delle lacrime versate per la passione di Gesù e dei suoi fratelli, Ludovica a sessanta anni era divenuta quasi cieca. E supplicava il Signore che le togliesse pure quel po’ di lume che le restava per affacciarsi alle miserie umane, se questa era la sua volontà, purché le accrescesse il lume interiore dell’anima.
Solo il velo della carne la legava al mondo. Raggiunto il vertice della perfezione Ludovica era matura per salire al cielo a celebrare le nozze eterne con lo sposo Gesù.


LA MORTE DI LUDOVICA
(dicembre 1532 – gennaio 1533)


Ludovica ormai volgeva al tramonto. Simile il suo ai meravigliosi tramonti romani che lasciano la nostalgia della luce nell’anima. Nel dicembre 1532 fu colpita da una violentissima febbre. Per smozzarne l’ardore fu sottoposta a una dieta rigorosa. A nulla giovando le fu somministrato un preparato di sostanze aromatiche, che dicevano allora, l’avrebbe presevata dalla corruzione. Ludovica percepì la gravità del male. “Signore, accresci pure in me il dolore – ripeteva- ma accresci anche la pazienza”. Nell’impeto del fervore esclamava “Signore, qui brucia, qui taglia, purché riceva il perdono per l’eternità”.

La nuova della sua malattia si sparse per Roma in un baleno e tutti accorrevano per vederla. Molte amiche le manifestavano la loro ansia per i dolori che soffriva. “Lasciate che il dolore castighi questo mio corpo – rispondeva – purché perdoni la mia anima”. E aggiungeva altre preghiere perché il Signore non le risparmiasse castighi. Era pronta ad andare all’inferno se questa era volontà divina. Un’amica forse inopportuna, le domandò se sarebbe andata volentieri all’inferno. “Quando ciò fosse volontà di Dio – le rispose – e non mi privasse della sua santissima grazia e del suo dolcissimo amore, di buona voglia accetterei di andare all’inferno”.

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I poveri facevano ressa dinanzi alla porta di casa invocando la loro madre. Ludovica li esortava a non disperare della sua protezione. Anche dal cielo li avrebbe protetti.
Cardinali e prelati si alternavano al capezzale della morente raccomandando alle sue preghiere la Chiesa di Roma. Ma lei si sentiva confusa per tanti segni di stima. Il via vai l’affaticava. I famigliari decisero di non permettere l’accesso alla sua stanza se non al medico e al confessore. La malata presto licenziò il medico, ringraziandolo e volle ritenere solo il padre spirituale. Lo pregò che le somministrasse i Sacramenti che ricevè con profonda devozione. Poi desiderò di essere lasciata sola con Gesù.

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Ludovica declinava rapidamente. Eppure sentì la forza di prendere il Crocifisso grande della sua stanza e gridare “Gesù mio misericordia, Vergine SS.ma, madre mia pietosa, liberami dalle insidie del nemico infernale in questa ora di mia morte”. Baciando caldamente le piaghe del Crocifisso riuscì a stento a pronunciare le ultime parole di Gesù in agonia “Nelle tue mani, Signore, raccomando lo spirito mio”. Era il crepuscolo di venerdì 31 gennaio 1533.

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Roma si commosse. Tutti andavano a rendere omaggio a Ludovica Albertoni e tutti ad una voce la dicevano santa. Il 1 febbraio 1533 si celebrarono i funerali con imponente concorso di popolo. I cardinali al completo atteserp l’arrivo del corteo in San Francesco a Ripa. A notte innoltrata alla presenza delle figlie, del genero e di altri parenti inumarono la salma nel centro della cappella di S.Anna. Questo era stato necessario perché il concorso di popolo non si riusciva ad arginare. Sulla tomba fu incisa questa iscrizione:

“Qui giace la Beata Ludovica degli Albertoni, 
moglie di Giacomo Della Ceteta, suocera di Nicola Muti. 
 Visse anni 60. Rese l’anima al Creatore il 31 gennaio 1533”.


IL CULTO DEL POPOLO
IL COMUNE DI ROMA E LA
BEATA LUDOVICA ALBERTONI


Ludovica fu invocata Beata fin dal giorno della morte. In tutti i dipinti si usò raffigurarla col nembo di santi. Il dipinto che si può considerare come il ritratto originale della Beata è quello che si trova nello sguncio destro dell’altare della cappella di S. Anna nella chiesa di S. Francesco a Ripa.

Il 28 gennaio del 1671 le fu riconosciuto il culto pubblico e proclamata Beata da Clemente X.
Nel 1675 si fece la ricognizione autentica del corpo e l’urna contenente i resti fu collocata sotto l’altare di S. Anna ove ancora si vede.

Il Comune di Roma ha onorata l’illutre concittadina con varie iniziative. Il 13 ottobre del 1606 stabilì di offrire alla chiesa di S. Francesco in Trastevere un calice e quattro ceri ogni anno il 31 gennaio. Nel 1625 il Senato dichiarò feriale per la Corte del Campidoglio il 31 gennaio in onore di Ludovica. Nel 1645 nella Cappella del Palazzo dei Conservatori Gianfrancesco Romanelli, su commissione del Senato, dipinse una tela raffigurante la nostra Beatra tra i santi romani Alessio, Eustacchio e Cecilia.

Nel 1870, con la presa di Roma, la bella e popolare tradizione dell'omaggio annuale del Comune di Roma ad una tanto meritevole ed eletta figlia di Roma venne interrotta. Nel settembre 1999 la Ministra dell'O.F.S. Agata Buzzi, supportata da una ulteriore lettera del Superiore del convento e Parroco della Parrocchia di S. Francesco a  P. Carlo D'Andrea, scrissero al Sindaco di Roma Francesco Rutelli un appello per ripristinare l'annuale omaggio alla compatrona della città. La risposta non si fece attendere e "a partire da questo anno 2000 - ebbe a scrivere il sindaco Rutelli - Grande Giubileo Cristiano, il Comune di Roma ha stabilito di ripristinare un'antica consuetudine, l'omaggio pubblico al sepolcro della Beata Ludovica Albertoni, dopo 130 anni di interruzione. Questo atto vuole essere un riconoscimento al valore autentico del culto dedicato a una romanissima esperienza che spicca per la dedizione al bene comune. Ludovica Albertoni, infatti, nella nostra città è nata, vissuta e morta e qui, a cavallo del 1500, ha esercitato un'opera notevole di apostolato dalla parte dei più deboli e segnatamente dalla parte delle donne. La restituzione dell'omaggio da parte della cittadinanza di Roma assume un significato particolare all'indomani del restauro del capolavoro del Bernini che impreziosisce ulteriormente la bella Chiesa di San Francesco, nel cuore di Trastevere".

La bella cappella – mausoleo attuale – che ospita la statua che mirabilmente raffigura l'agonia dell'Albertoni, una delle ultime opere di Gianlorenzo Bernini, fu progettata e costruita dall’architetto Giacomo Mola nel 1625. La pala d’altare che raffigura S. Anna, la Madonna e il Bambino è opera di Giovan Battista Gaulli detto il Baciccia (1639-1709).  Gli affreschi della cupola sono di Gaspare Celio (secolo XVII). 


Testo di P. Celso Luigi Cipriani ofm
aggiornato nell'ultima sezione da Marco Stocchi ofs

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