giovedì 15 settembre 2016

VITA DELLA BEATA ELISABETTA SANNA NELLE TESTIMONIANZE DEI CONTEMPORANEI - biografia di Francesco Armoroso


Le notizie che diamo provengono tutte da testimonianze giurate nel Processo di Beatificazione.




La vita di Elisabetta in Sardegna

Le testimonianze raccolte nei Processi intorno agli anni trascorsi dalla Venerabile in Sardegna non sono molte - forse pensarono che, vista la lunga degenza romana, fossero irrilevanti - quelli però che ne parlano sono testimoni qualificati.
Abbiamo Antonio Luigi Sanna, fratello della Venerabile, sacerdote, e don Giuseppe Valle, confessore della Venerabile, in Sardegna. C'è poi tra i Documenti la biografia del teologo Francesco Spano-Sanna, parroco di Codrongianos, che raccolse le sue informazioni tra i vecchi che I'avevano conosciuta. E ne abbiamo anche un'altra tra i documenti del Processo, scritta da Giovanni Pierantoni, che era Consultore proprio della Congregazione dei Riti. Ma Elisabetta, dal 1831 al 1857, per ventisei anni, stette sempre a Roma, e questi furono gli anni che caratterizzarono e determinarono la sua santificazione, perché li visse unicamente in questo senso e perché si lasciò condurre con assoluta docilità da san Vincenzo Pallotti, che fu dichiarato santo col titolo di "Perla e Decoro del Clero di Roma".


Panoramica di Condrogianos

Elisabetta nacque il 23 apnle 1788 a Codrongianos, un paesetto di 1200 abitanti, nella provincia di Sassari, in Sardegna. I genitori, Salvatore Sanna e Maria Domenica Lai, erano agricoltori, modestamente agiati; onestissimi e religiosi; Salvatore fu anche sindaco del paese.
Elisabetta fu la seconda di sette figli uno dei quali, Antonio Luigi, divenne sacerdote.
A soli tre mesi, fu vittima del vaiolo e per una maldestra operazione rimase con le braccia rattrappite, sicché non fu mai capace di portare con le mani il cibo alla bocca né di toccarsi la fronte: quando entrava in chiesa, bagnava o faceva bagnare con I'acqua benedetta, l'orlo della pila e vi appoggiava la fronte.

Quando entrava in chiesa, Elisabetta bagnava o faceva bagnare
con I'acqua benedetta, l'orlo della pila e vi appoggiava la fronte
Intelligente e riflessiva, apprendeva, ripensava e assimilava. Le verità divine diventavano vita per lei. Il suo progresso nelle virtù fu rapido e duraturo.
A sei anni fu data da educare a Lucia Pinna, virtuosa donna, alla quale i genitori del paese affidavano le bambine, perché educandole, le custodisse. In quello stesso anno ebbe il sigillo dello Spirito Santo.




Chiesa parrocchiale di San Paolo Apostolo
cui appartenne la famiglia Sanna.
A dieci anni fece la prima confessione e ricevette la Prima Comunione.
Fioriva. Sempre disponibile in casa. Divenne guida delle sue compagne. Comunicava spontaneamente quanto apprendeva e praticava, ed era ascoltata. Insegnava la dottrina cristiana, dirigeva adunanze dell'oratorio, guidava pellegrinaggi alla Madonna di Saccargia, stupendo santuario a tre miglia da Codrongianos. Cresceva, e faceva crescere le sue compagne.


Basilica della SS. Trinità di Saccargia (Sassari)


Interno di casa Sanna, oggi aperta al pubblico
dei fedeli e dei vis
SPOSA E MADRE
Giunse senza avvedersene alla vetta della giovinezza. Un giovane si rivolse a sua madre, per averla in sposa. Elisabetta rimase sconcertata; s'era già costruito un futuro di silenzio e di preghiera in una clausura. Con quelle sue braccia, che non s'alzavano, non s'era neanche posto mai il problema se farsi o meno una famiglia; e I'amor di Dio, che le cresceva dentro, non le permise di sentire nessun vuoto da riempire. La madre invece, proprio per via di quelle braccia penzoloni, non voleva che sua figlia rimanesse sola. Elisabetta era buona, aperta, squisita e provvista di dote. Le proposte di matrimonio diventarono tre, e la madre cominciò a irritarsi perché sua figlia non I'assecondava; diventò violenta. Elisabetta si rivolse al confessore. Il confessore si schierò dalla parte della madre; Elisabetta accettò il matrimonio, ma, dei tre che la chiedevano, volle il più povero, Antonio Maria Porcu. E il 1 settembre 1807, divenne sposa felice d'un marito felice.



Porta della casa della B. Elisabetta Sanna in Codrongianos

Di sette figli ne sopravvissero cinque: una bimba morì nel parto e un'altra a pochi mesi. Il marito non faceva nulla, senza sentire prima la moglie e la moglie non finiva mai di dire che non era degna d'un marito così buono, La cura del marito, dei figli e dei genitori reneva occupata la giovane sposa; l'amor di Dio la riempiva di gioia e le sopperiva la forza che mancava alle braccia. Il 25 gennaio 1825 Antonio Maria Porcu morì santamente.



Campanile della Chiesa di S. Croce in Codrongianus

dove fu sepolto Antonio Maria Porcu
VEDOVANZA. IL VOTO DI CASTITA'.
Elisabetta fece voto di castità. Si riaffacciarono i pensieri della giovinezzai ma ogni domenica insieme ai figli si recava all'oratorio del S. Cuore e recitava il rosario sulla tomba del marito. Curava la famiglia, la casa, i campi. Coltivava dentro di sé e lo esprimeva, tra i suoi e gli intimi, l'amor di Dio che le cresceva dentro. “Come ho potuto rilevare da persone ancora viventi - dichiara il teologo Spano-Sanna - il suo parlare era un esercizio di virtù e la bontà dei suoi principi era singolare. Nel mio paese era ritenuta un modello di perfezione cristiana”.Le sue ragazze frequentavano la nonna, i due maschi più grandi lavoravano col nonno e cominciavano a risentire la disciplina materna; il bambino più piccolo godeva di particolari attenzioni da parte dello zio don Antonio Luigi.


DESIDERIO DI RECARSI IN TERRA SANTA
Elisabetta sentiva sempre più vivamente il richiamo del convento. Nel 1829 si recò a Sassari ed espose al vicario generale il suo disagio, e questi Ie disse di obbedire al suo direttore spirituale. In quello stesso anno il quaresimalista parlò con molta efficacia della Terra Santa ed Elisabetta ne restò inebriata: Ie si accese un desiderio vivissimo di vedere i luoghi dove nacque, dove fu cocifisso il Figlio diDio. Ne parlò con il confessore, ma n'ebbe un rifiuto.
Passarono due anni. I figli erano cresciuti ed anche il suo desiderio dl vedere e roccare ciò che Gesù aveva toccato ed i luoghi ch'erano stati bagnati dal suo sangue; e anche don Giuseppe Valle, che era il viceparroco, era entusiasta del viaggio e varia altra gente desiderava di recarsi in Terra Santa. Finalmente il confessore diede il suo assenso al viaggio, e il progetto divenne operativo. I decisi a pirtire rimaséro soltanto don Giuseppe ed Elisabetta. S'imbarcarono il 25 giugno 1831. Li sorprese una burrasca che li tenne quattro giorni in balia delle onde. Sbarcarono a Genova il 29 giugno. Elisabetta non si reggeva in piedi. Appena potè camminare, visitò chiese e prigioni: ma quando si presentarono al porto, per imbarcarsi sopra una nave diretta a Cipro, s’accorsero che i loro passaporti non avevano il visto per il nuovo tratto di viaggio.
 Don Giuseppe decise di recarsi intanto a Roma – per avere il visto ci voleva un mese! – per venerare la tomba degli Apostoli Pietro e Paolo e le reliquie di tanti martiri. In vettura e a piedi, con non poche e fastidiose avventure, il 23 Iuglio furono a Roma.

A ROMA
Don Giuseppe poté accomodarsi come cappellano nell’ospedale di Santo Spirito; Elisabetta finì in una soffitta presso la Basilica di S. Pietro, e cominciò la guerra. Il confessore, il solo sardo che la capisse, le ordinò di fare immediato ritorno in famiglia. Ma la poveretta non poteva mettersi in mare: la traversata e l'estenuante viaggio, buona parte a piedi, sotto il sole di luglio, l’avevano distrutta e, poi, non aveva il denaro per il ritorno. Don Giuseppe invece le suggeriva una ragionevole attesa. Proprio a questo momento incontrò san Vincenzo Pallotti, il quale, visto il caso, le disse di rimanere, finché I stagione e la salute non le consentissero il ritorno, e diventò il suo direttore spirituale: poi però tutto concorse a rendere permanentè la sua dimora in Roma.
Ma l'approdo di Elisabetta in Roma non c'era stato nel piano di partenza ed essa non aveva abbandonato la famiglia. Lo scopo del suo viaggio era quello di veder la terra su cui s'erano poggiati piedi e dove era scorso il sangue di Gesù Cristo.


Indumenti della B. Elisabetta Sanna conservati
a Codrongianos dove sempre vivo è rimasto nei compaesani
ricordo di Mamma Sanna. Foto d'epoca.
LA FAMIGLIA IN SARDEGNA
Intanto la famiglia viveva ben affidata, e non correva rischi: i due maschi grandi lavoravano col nonno, le due ragazze stavano con la nonna e il bambino più piccolo stava con lo zio sacerdote. Le notizie che venivano dalla Sardegna, dicevano che la famiglia di Elisabetta era di ammirazione a tutto il paese. E, indirettamente, anche la S. Sede ha archiviato il presunto reato dell'abbandono della famielià imputato alla Venerabile, poiché il suo direttore spirituale, Vincenzo Pallotti, è stato messo sugli altari. E come la Chiesa avrebbe potuto dichiarare modello dei sacerdoti uno che avesse giustificato una madre che si fosse ostinata all'abbandono della sua famiglia? Non è, invece, da ammirare la forza sovrumana della Venerabile? Una donna sola in una grande città, la sua solitudine aggravata dalla impossibilità di comunicare con qualsiasi persona: parlava e capiva soltanto il suo dialetto; e aveva nel cuore l'amarezza dei figli lontani, uno dei quali aveva solo nove anni! Era povera; era partita con un pugno di scudi finiti già nel viaggio; viveva in una soffitta. Era malata: forti dolori reumatici; continuo mal di testa; le braccia erano due monchi penzoloni. Per raggiungere la sua soffitta doveva attraversare l'osteria sottostante e la dovevano attraversare tutte le persone che si recavano da lei, e la cosa dava fastidio agli osti, che le face- vano sentire la loro antipatia. Per la stada il suo vestito e il suo linguaggio le attiravano le beffe e le malversazioni dei monelli. Eppure non si sgomentò; non reagì; crebbe il suo amore di Dio e del prossimo. Amò la povertà, amò gli insulti, amò la malattia. La sua vita interiore si dilatò; s'immerse in un autentico e costante apostolato.

La vita romana di Elisabetta


LA ROMA SPARITA DELL'800
Ettore Roesler Franz,
Casa di Giulio Romano, acquarello
A Codrongianos Elisabetta godeva di una discreta agiatezza: la famiglia era rispettata, lei aveva un personale prestigio; i figli, i genitori, il fratello sacerdote le stavano vicibi; era l'anima della sua parrocchia. A Roma tutto questo le venne meno. Ma non chiese mai nulla a nessuno per alleviare la sua povertà; eppure qualche giorno non ebbe nulla da mangiare. Pian piano cominciò a farci capire: qualcuno, vedendola così povera e così buona, le dava qualche soldo; la moglie del giardiniere del Vaticano l'aiutava a pettinarsi e le portava delle verdure; cominciò a fare qualche servizio alla portata delle sue mani.

Da giovane aveva pensato di chiudersi in un chiostro, per fare della sua vita un dono ed una perpetua azione di grazie a Dio e di servizio al prossimo. Già allora parlava con Dio nel profondo del suo spirito e l'amor di Dio ardeva già come fuoco vero. Il sogno giovanile tornò più vivo. Incontrò san Vincenzo Pallotti. Si mise alla sua scuola; anche lui, da giovane, aveva desiderato il chiostro dei Cappuccini, e, solo a quarantasei anni poté in parté realizzarlo nella comunità che aveva fondato.



Stampa con San Francesco d'Assisi
appartenuta a San Vincenzo Pallotti
che aveva aderito al
Terz'Ordine Francescano della
Fraternità di S. Maria in Aracoeli,
diretta dai Frati Minori.

Anche i genitori di S, Vincenzo Pallotti
erano Terziari francescani, iscritti presso
la Fraternità di S. Maria Immacolata di
via Veneto, diretta dai Frati  Cappuccini

Presso la chiesa del SS. Salvatore in Onda,
vi è um Museo che raccoglie insieme agli oggetti
appartenuti a San Vincenzo Pallotti,
tra cui la stampa nella foto,
anche alcuni appartenuti alla B. Elisabetta Sanna.

Cliccando qui
è possibile fare una visita virtuale


Elisabetta scelse la povertà francescana e fece della soffitta, dove abitava, il suo convento; e le chiese, gli ospedali, le vie di Roma, divennero il campo del suo apostolato. Abitava presso la sacristia di S. Pietro. L’edificio fu demolito per far posto all'abitazione dei Canonici Beneficiari della Basilica. Al piano terra, c'era un'osteria della famíglia Campi. Sull'osteria c'era una gran soffitta divisa in due ambienti; ci pioveva, era piena di topi. Questa fu la sua abitazione fino alla morte.
La Basilica di S. Piero fu la sua più costante dimora diurna. Vi andava al mattino, appena I'aprivano, e vi restava fino a quando spegnevano le candele dell'ultima messa. Rimaneva la sempre in ginocchio, rannicchiata per terra, immobile, spesso con la fronte sul pavimento: in un angolo, o nascosta dietro un confessionale. Pregava intensamente. La cappella del SS. Sacramento e le chiese delle Quarantore erano il suo appuntamento preferito.

Era giovane ancora e in Sardegna, s'intende, quando, al sentire una predica sulla Passione svenne; si rianimò ad una voce che le diceva dentro: “Fatti coraggio e amami!". Durante la settimana santa, per darsi tutta alla meditazione della passione non riceveva nessuno.

Dovette recarsi da lei una volta la sua amica Adelaide Balzani ed, anche per lei, Elisabetta, al vederla, esclamò: "Ma in questi giorni!” “Ciò che mi fece impressione - commentò la signora - fu il colore pallido del suo volto: sembrava quello d'un cadavere, e da questo capii quale immenso dolore provasse alla meditazione dei dolori del Redentore. E un giorno, mentre pregava in S. Pietro, le apparve il Signore che versava sangue dalle piaghe aperte, per manifestarle i tesori delle grazie e di misericordia che avrebbe versato sui devoti del Preziosissimo Sangue”.


Ascoltava la S. Messa, riferendone le fasi ai momenti della Passione di Gesù Cristo, come le aveva insegnato san Vincenzo Pallotti. Visitava ogni giorno la Scala Santa e nel pomeriggio faceva la Via Crucis nella chiesa del Camposanto Teutonico.


  • TERZIARIA FRANCESCANA

Vestì I'abito di Terziaria Francescana in S. Francesco a Ripa Le erano familiari moltissime chiese: lo Spirito Santo dei Napoletani e il SS. Salvatore in Onda, perché lì trovava san Vincenzo Pallotti e il centro dell'Apostolato Cattolico, poi: S. Pietro in Montorio, S. Maria delle Grazie, le Mantellate, Tor de' Specchi, S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore, S. Sebastiano e le Catacombe, le Sette Chiese, S. Maria della Pace; e chi conosce Roma può farsi un'idea del tempo e della fatica di questo pellegrinare.

Quando passava per la strada, gli adulti che la vedevano in preghiera, la guardavano ammirati; e più ancora, quando la vedevano in chiesa con la corona in mano, sempre prostrata, o mentre andava, o tornava dall'altare, dove riceveva il Signore. 


I monelli di Campo dei Fiori al vedere la sua tonaca fratesca rattoppata e quel cuscinetto sulla testa con quel velo di contadina la insultavano, ma lei non si scomponeva. Don Giuseppe Sterpi, che abitava di fronte alla chiesa di S. Dorotea, osservò più volte le due fasi d'uno spettacolo. Quando Elisabetta attraversava la piazzetta, per recarsi in una cappellina attigua a S. Dorotea, i monellile tiravano addossó sassi, broccoli e carciofi; ma lei neanche si voltava: delusi per la mancata reazione si ritiravano. Ma, quando Elisabetta ritornava, le donne del vicinato, che s'erano passata la voce, le si stringevano intorno, le baciavano la mano, e si raccomandavano alle sue preghiere. Si avvicinavano allora i monelli ed lei li guardava con un sorriso lungo e dolcissimo, metteva loro la mano carezzevole sulla testa e gli raccomandava di non fare agli altri ciò che avevano fatto a lei.

  • LA "VIRGO POTENS"



La sua abitazione era una topaia: ma topaia vera, dove i topi scorazzavano a frotte. Il letto era fatto di tavole; forse sulle tavole c'era anche della paglia vecchia, ma non meno dura del legno; non c'erano lenzuoia. Un tavolinetto con una lampada a olio e qualche candela; una sedia. Sulla parete una piccola tela: una dolce Madre e il Bambino. La lampada era sempre accesa. Elisabetta chiamò la sua madonna Virgo Potens, Vergine Potente, e ne fece il centro d'un suo efficace, continuo e largo apostolato.
Tutti quelli che entravano in quella soffitta, pregavano. Lì si pregava soltanto, o si parlava di cose spirituali. Elisabetta invitava tutti quelli che l'avvicinavano, a visitare la sua Madonna. Lì la sua cultura era solida, il linguaggio ispirato. Specialmente durante Maggio i visitatori erano tanti; vi si vedevano ecclesiastici di gran merito, rappresentanti di governi presso la Santa Sede, tanto clero e tan ta sente d'ogni classe, che andava in cerca di consiglio e dí preghiere.

Tra i frequentatori abbiamo notato tanti nomi distinti: mons. Soglia, che fu poi vescovo di Cingoli e cardinale, il Parroco di S. Maria in Traspontina, poi vescovo di Alghero, Giuseppe Palma poi arcivescovo, 1a presidente e varie Oblate di Tor de' Specchi e altre suore dei Sette Dolori, don Giuieppe Grappelli, don Luigi Petritoli, don Antonio Salvatori, don Paolo Scapaticci, don Michele Cerroni, padre Luigi Lusari S.J. don Giuseppe Valle, san Vincenzo Pallotti, don Francesco Vaccari, don Raffaele Melia, don Luciano Bandiera, don lgnazio Auconi, don Carlo Maria Orlandi, don Placido Petacci, Antonio Cassetta, padre del cardinale, don Giuseppe Aquari, don Luigi Petrilli, la marchesa Vittoria Fioravanti, 1a marchesa Emilia Longhi, la Principessa di Sassonia, don Filippo Tancioni. padre Paolo Cammilletti.

San Vincenzo Pallotti
, ch'era il suo padre spirituale, si rivolgeva a lei per consiglio e le inviava persone che ne avevano bisogno. E tutti questi nominati e tanti altri, dei quali non fu fatto il nome, erano convinti che in Elisabetta parlasse lo spirito di Dio.




Da giovane Elisabetta aveva pensato di chiudersi in un chiostro,
per fare della sua vita un dono ed una perpetua azione di grazie a Dio  e di servizio al prossimo.
A Roma, la Beata Elisabetta incontrò san Vincenzo Pallotti. Si mise alla sua scuola;
anche lui, da giovane, aveva desiderato il chiostro dei Cappuccini,
e, solo a quarantasei anni poté in parté realizzarlo nella comunità che aveva fondato:
la Società dell'Apostolato Cattolico


  • LA SOCIETA' DELL'APOSTOLATO CATTOLICO
“Da quando ebbe inizio la mia Società dell'Apostolato Cattolico - è don Raffaele Melia che parla - Elisabetta ne fu particolare promotrice; si dimostrò verso tutti i suoi membri madre premurosissima del loro bene spirituale, adoperando sempre consiglio e preghiere, per animarli a seguire il vero spirito e le virtù del fondatore”.

A don Raffaele fece eco don Scapaticci, affermando: “Non so quando la Venerabile s'iscrisse formalmente alla Congregazione di don Vincenzo, so però che l'ha aiutata sempre con consigli, preghiere ed elemosine. Don Vincenzo diceva sempre che una poverella si privava di quanto veniva dato a lei, per darlo al suo istituto e che egli riceveva più aiuto da questa poverella che dai ricchi. Io allora non sapevo chi fosse questa poverella, ma lo seppi in seguito da don Francesco Vaccari, il quale aggiunse: “Sono due quelli che hanno mandato avanti il nostro istituto: Elisabetta Sanna, come avete sentito più volte da don Vincenzo, e il cardinale Lambiuschini”.
L’accostamento Lambruschini-Sanna è certamente audace: ma la Venerabile impegno tutta la sua vita per I'Apostolato Cattolico. Quelli che aderivano alla Società potevano cooperarvi con la preghiera, con delle offerte, con la personale attività apostolica; Elisabetta fece sempre tutte e tre le cose: pregava e faceva pregare, dava per I'Apostolato anche quanto era necessarlo per la sua sussistenza; I sua casa, la strada, la chiesa, gli ospedali erano i luoghi dove svolgeva il suo apostolato per la salvezza delle anime. Infatti don Raffaele Melia dichiarò: “Metteva a nostra disposizione i sussidi che riceveva per sé. Donava ai poveri tutto quello che ricavava dalla altrui carità. Si privava del cibo, per darlo a chi era più povero di lei”. Già a Genova dopo la disastrosa traversata, avendo incontrato nelle prigioni alcuni suoi compaesani, diede loro parte dei suoi indumenti; ma il suo guardaroba era tutto in un sacchetto, e non aveva soldi per acquistare nuovi capi. Oggetto di particolare attenzione per lei erano le ragazze che san Vincenzo aveva raccolte nella Pia Casa di Carità, per liberarle dai pericoli della strada.


Antico Ospedale di S. Spirito in Sassia
Frequentava l'ospedale di S. Spirito in Sassia e quello di S. Giacomo degli Incurabili. Confortava le malate, le serviva in tutto quanto le consentivano le sue povere braccia, le preparava ai sacramenti, e non c'era né freddo né pioggia che le impedisse di andarvi; assisteva, con il permesso del confessore, anche dei malati nelle loro case. Quando s'ammalò la sorella di Rosa Rinaldi - la moglie del giardiniere del Vaticano, che la pettinava e I'aiutava in tutte le cose personali - si fermò talvolta anche tutto il giorno con l'inferma.
San Vincenzo le disse di assistere il segretario della Congregazione dei Vescovi e regolari mons. Soglia, poi cardinale, ed ella vi si recava mattina e sera, passando quattro volte il Ponte S. Angelo e sconvolgendo tutto il suo sistema di vita privata; e tutto questo lo faceva con disinvolta semplicità e piacere, come se fosse Iei a ricavarne profitto.

Dai giardini del Vaticano col consenso del Papa le venivano portati broccoli, cavoli, insalata e varie verdure; lei ridava tutto ai poveri. “Le portai un giorno della cioccolata - disse Michele Cerroni - ma non credo che I'abbia mangiata lei”. Una distinta signora, visti i suoi abiti logori, le donò un suo vestito nuovo bellissimo: Elisabetta lo diede a don Vincenzo, e questi ne fece arredi per la chiesa.

Un altro giorno le furono regalate delle splendide coperte di lana; ma don Francesco Vaccari dovette ricorrere ad un esplicito richiamo all'obbedienza, per ottenere che ne ritenesse almeno una sola per sé. Non chiedeva mai nulla per sé: invece domandava volentieri per gli altri e diceva: “Il beneficio che si fa a quelli ai quali si chiede, è più grande di quello che arriva a quelli per i quali si chiede”: ma anche questa era dottrina di san Vincenzo.

Radunava le ragazze povere nell'atrio della Basilica Vaticana, o a casa sua, e spiegava loro il catechismo che avevano appena sentito in chiesa. Gente d'ogni condizione e classe, romani e forestieri, prelati, professori, religiosi e preti secolari, chiedevano a lei consigli e preghiere. Non di rado presso la sua casa si vedeva una fila di carrozze in attesa dei signori, che si erano recati da lei; alle volte le visite erano tante che non le restava neanche il tempo di prepararsi qualcosa da mangiare. Ne la sua cucina richiedeva molto impegno: metteva a bollire verdure, fave, un pugno di riso; senz'olio e qualche volta anchè senza sale; e tutto doveva bastare per almeno due giorni. Le amiche se ne accorsero e l'una o I'altra, specialmente le Oblate di Tor de' Specchi, le mandavano qualcosa già cotta, specialmente un po' di brodo.

“Ha del prodigioso -
dichiarò don Giuseppe Grappelli – la copia di mezzi che la carità dei fedeli versò nelle sue mani; ma dava tutto alla Società dell'Apostolato Cattolico. Filava, cuciva, lavorava ai ferri con quelle povere mani storpie, e vi impegnava certamente la notte, vista là ressa di gente che la teneva occupata durante il giorno. La principessa di Sassonia toccò il suo letto e, sentito quanto fosse duro, gliene comprò uno nuovo, bello, soffice e fornito di belle coperte; ma Elisabetta la ringraziò con molto garbo e, prima che lo portassero nella sua soffitta, lo spedì a casa di san Vincenzo, perché lo donasse ai poveri”.

Fede e carità di Elisabetta



Paul Delaroche, Pellegrini a San Pietro,

Museo Narodowne, Poznan, 1842
Ogni mattina era in S. Pietro e, se non aveva altri impegni, vi restava fino alla fine dell'ultima messa. La Basilica era la sua casa. Quando morì infatti, corse la voce: “E’ morta la santa di S. Pietro”. Tutti i testimoni dicono che con lei si parlava solo di cose spirituali. Don Luigi Petritoli credette di poter precisare che la Venerabile faceva la comunione spirituale tentatré volte il giorno: era il suo modo di vivere la comunione con Dio. E la sua riverenza per la santa Eucaristia traspare da quel suo ingenuo desiderio, manifestato più volte, che i sacerdoti portassero sempre i guanti o delle fasce alle mani, perché con queste trattano il corpo di Gesù Cristo.

"Don Francesco Vaccari -
disse don Scapaticci - mi mostrò una volta le calze che gli aveva fatto Elisabetta con le sue mani storpie". "Era innamoratissima della Passione di Gesù Cristo - dice ancora don Scapaticci - e su questa faceva lunghe meditazioni a casa e in chiesa. Il suo atteggiamento era di persona assorta in profonda meditazione, e io stesso ne fui testimone più volte, alle funzioni che si celebravano al SS. Salvatore in Onda col Santissimo esposto; stava con la fronte piegata fino a toccare quasi il pavimento. Parlava con affetto e con soavi espressioni della Madonna e invitava tutti ad amarla come Madre, a servirla devotamente e a invocarla come potente Signora"


Luigi Schiboni un giorno la trovò in S. Pietro presso l'altare di S. Cecilia, ma rincantucciata e in ginocchio dieto un confessionale. Si mosse verso di lei, ella però gli fece segno di aspettare; poi, dopo un poco, gli disse di avvicinarsi e, quando lo Schiboni le domandò perché lo avesse fatto aspettare, gli disse: “Figlio mio, stavo sentendo la messa e se, innanzi a quel tremendo sacrificio gli Angeli ci stanno prostrati bocconi, come dovremmo starci noi, poveri vermi della terra?”.

La sua intima amica, Adelaide Balzani, invece rammentò:  
“Soleva portarsi negli ospedali, per prestare ai malati, insieme alle cure corporali, vitto, elemosine e aiuti spirituali. Si tatteneva con loro benevolmente e li istuiva nelle verità della Fede e sui doveri dei cristiani; e continuava a far questo, sebbene ne riportasse insulti e maltrattamenti dagli infermieri, che la deridevano per il suo dialetto: quando si andava a trovarla nella sua camera, la conversazione si risolveva in un alternarsi di istruzioni religiose e preghiere. Il suo linguaggio era vivido: parlava col cuore. Sentiva lntimamente e viveva le verità che annunziava. Specialmente durante la rivoluzione del 1848 subì non pochi strapazzi; ma insulti e strapazzi non la ferivano afratto; nutriva la speranza di morire per la sua Fede, e invidiava i missionari che si recavano tra gli infedeli, perché ne avevano una maggiore probabilità. Durante la settimana santa sospendeva tutte le udienze, per dedicarsi totalmente alla meditazione del grande Mistero. Mi faceva i più belli e commoventi discorsi, quando mi parlava del Santo Sacrificio della Messa; ne sottolineava la sublimità ed eccelIenza e concludeva dicendo che il Signore ci ha fatto un dono d'immensa carità, perché con la Messa gli possiamo rendere degnamente, quanto gli dobbiamo in adorazione lode, ringraziamento e preghiera. Era, quindi sommamente premurosa del decoro della casa del Signore. Aveva assimilato lo spirito dell'Apostolato Cattolico. Suggeriva a tutti di pregare incessantemente, perché tutti i popoli conoscessero la vera Religione e li invitava a ripetere spesso la preghierà di san Vincenzo, perché tutto il mondo si raccogliesse nell'unico Ovile e sotto un solo Pastore e a questo scopo moltiplicava preghiere e penitenze”.
 
Don Giuseppe Grappelli fu suo direttore spirituale negli ultimi anni e dichiarò: “Tutto il tempo della sua vita fu una otazione continua, meditazione e unione con Dio, al quale riferiva ed offriva discorsi, azioni e travagli”.

Don Raffaele Melia, che fu suo confessore dalla morte di don Francesco Vaccari in poi, aggiunse: “Era avida della santa comunione. Al battere dell'orologio offriva all'Eterno Padre il Sangue Preziosissimo di Gesù Cristo e, come il Maestro san Vincenzo, glielo offriva a conclusione di ogni sua preghiera, per assicurarne I'efficacia. Gesù Cristo era il suo gran libro, scritto dentro e fuori, e ne attingeva lezioni di eterna salvezza”.



Aleksandr Petrovic, Carnevale Romano (1839)
Don Paolo Scapaticci, anziano ed esimio sacerdote, raccontò d'averla vista gettarsi in ginocchio in mezzo alla strada, perché aveva sentito una bestemmia. Quando le accadeva qualche avversità e quando qualcuno dei suoi mali si faceva sentire più acutamente, diceva: “Misericordia di Dio! Che bel dono mi ha fatto lddio! Oh quanto è buono il Signore! Io però non ne approfitto”.

E durante il carnevale - secondo la testimonianza della signora Rosa Rinaldi, che le stette vicino per quindici anni diceva: “Preghiamo assai, perché in questi giorni il Signore è tanto offeso”; e gemeva per gli scandali e disordini che venivano commessi, e si sarebbe esposta a qualsiasi pena per impedirli.

Le sue attenzioni per gli altri erano tenerissime. Benché inferma e debolissima, si adoperò sempre a vantaggio del prossimo anche se in compenso ne aveva calunnie e insulti; una sua vicina la minacciò perfino col bastone, ma lei la raccomandò ai suii benefattori. Per i membri dell'Apostolato Cattolico fu madre premurosissima, pteoccupata che acquistassero il vero spirito del loro Fondatore e vivessero in carità.



Icona della Beata Elisabetta Sanna
elaborata dalla signora Juliane Jansen.

Innamorata
della sofferenza

Sbarcata a Roma da un villaggio della Sardegna, nonostante la sua minorazione fisica, Elisabetta svolse un efficace apostolato. La forza di questa efficacia Don Giuseppe Grappelli, che fu il suo direttore spirituale dall'estate del 1851 fino alla morte, la intravide nella sua ansia di sofferenza.
“La riempiva di dolore - dichiarò - il non vedere Dio amato da tutte le creature, il vedere la perdita di tante anime redente dal sangue preziosissimo di Gesù Cristo: l'ignoranza in cui erano allevati i fanciulli delle classi più povere, la profanazione delle chiese, la tormentavano grandemente e al tempo del carnevale, in cui il Signore la visitava con maggior copia di sofferenze, diceva spesso: "Preghiamo assai, perché in questi giorni Iddio è molto offeso" e gemeva per gli scandali che si moltiplicavano, e si sarebbe esposta a tutto, per impedirli; e si accendeva di nuovo zelo e di un più vivo desiderio di maggiori patimenti”.
Elisabetta, infatti, era stata alla scuola di Gesù Cristo, che prese su di sé i peccati degli uomini, e alla scuola di san Vincenzo Pallotti, che si flagellava e si faceva flagellare per i peccati del mondo. Tutta la sua vita fu un sacrificio di espiazione.
Non poté mai servirsi, come gli altri, delle sue braccia: non poté mai portare drettamente il cibo alla bocca, pettinarsi, lavarsi il viso con le mani, fare un completo segno di crocer eppure curò i figli e la casa, badò alla cucina e ai campi; guidò adunanze di giovani e di madri di famiglia, assisteva malati! Era certo eroica per quelló che faceva, ma quanta umiliazione per quanto non riusciva a fare! Perciò il suo direttore spirituale Grappelli sottolineò che era uno stupore che non si lamentasse mai per la sua minorazione. Anzi: “Era serena, ilare” leggiamo nei Processi.
Al paese la chiamavano, per burla, l' "abbadessa" e per le vie di Roma si vide venire addosso talvolta una pioggia di sassi; ma non si scompose mai, neanche quando una donna infuriata la strapazzò da Ponte S. Angelo fino alla Chiesa Nuova, con pugni e insulti, e con una sassata le procurò un bernoccolo sulla testa che vi rimase tutta la vita.
Era di natura vivace; ma non sapeva odiare e, quando era offesa, diceva: “Quanto è buono Iddio! Se sapessero quello che sono; altro che questo io merito!”.

  • DEVOZIONE E VOTO ALLA B. VERGINE ADDOLORATA
Da ragazza aveva chiesto alla Vergine Addolorata di poterne condividere le pene; fu accontentata. Cominciò con un frequente mal di capo e mal di denti. Poi l’interminabile avventura del viaggio, che fece capo a Roma, invece che a Gerusalemme, sconvolse tutto il suo fisico e non stette più bene, e i disturbi si moltiplicarono e aggravarono di anno in anno. 
Un'artrite deformante le si diffuse in tutto il corpo. Andò soggetta a febbri altissime, che si sarebbe gettata in uno stagno gelato, e poi subito dopo era presa da un freddo irresistibile. Sembra che si accentuasse in lei una somiglianza col Crocifisso: le mani e i piedi erano gonfi e doloranti, al petto un dolore di trafitture, il cervello le bolliva nella testa, tutta la persona come triturata e percossa. Passava insonne e in preghiera gran parte della notte, ma al mattino, per tempo, era in S. Pietro e due volte al giorno si recava a servizio in casa di mons. Soglia, anche quando questi si trasferì in Piazza Campitelli; ed era una non comune passeggiata da S. Píetro al Campidoglio, specialmente nel caldo dell'estate e quando pioveva.
Vennero poi deliqui e svenimenti; talvolta sentiva come una mano invisibile che le stringeva e schiacciava dolorosamente il cuore. Il rimedio che la medicina del tempo suggeriva per gonfiori e dolori erano degli impiastri di pece molto calda, ed Elisabetta li applicava generosamente al petto, alle spalle, alla pancia, alle gambe; ma I'effetto più sicuro erano altre piaghe prodotte dalle scottature. Ma per lei dolori e malattie erano misericordia di Dio e si doleva soltanto di non saperne approfittare, e un giorno con un pizzico d'ingenua compiacenza disse a don Giuseppe Villa: “Il padre spirituale non mi vuol permettere il cilizio, ma ci ha pensato Iddio. Gesù Cristo ha sofferto altro che questo! Le mie sofferenze al paragone sono poltroneria”.  Sembrava che i mali non fossero suoi e, al vederla così tranquilla, alcuni stentavano perfino a credere che fosse malata. Godeva di poter soffrire. Vedeva nella sofferenza un segno tangibile della misericordia di Dio: almeno aveva qualcosa da offrire in cambio dell'amore di Gesù Cristo. Perciò non chiedeva mai di esserne liberata e neppure che le fosse alleviata; chiedeva invece che le fosse accresciuta, per condividere più intensamente la Passione benedetta del Salvatore. “Ero presente alla sua ultima malattia - disse don Raffaele Melia - e non sentii nessun lamento né durante tutta 1a notte né il mattino seguente, né scorsi un gesto di stanchezza; ero ammirato per tanta sua pace e tranquillità”.

  • VESSAZIONI DEL DEMONIO
Ai mali fisici si aggiunsero le vessazioni del demonio. Nell'ottobre del 1811, una notte comparve un uomo nella sua camera e le srappò le coperte di dosso. Elisabetta si raccomandò aIIa Virgo Potens e I'uomo scomparve, lasciando dietro di sé un acre odore di zolfo. Ma non era la prima volta che il demonio la infastidisse sensibilmente e non fu I'ultima. Le appariva nelle vesti del confessore, del marito, di un figlio e le suggeriva cose orribili; le sfasciava I'altarino della Madonna, ma non ne toccava l'immagine; I'afferrava alla gola quasi da soffocarla, la percuoteva e pestava in tutta la persona; vide un cavallo furioso che gettava fuoco dalla bocca, dalle narici e dagli occhi, un cane che le diede un morso sul viso e una sua amica un mattino le scorse in faccia. sul corpo i segni dello scontro subito. San Vincenzo Fallotti e don Francesco Vaccari sapevano tutto questo e fecero anche degli esorcismi nella sua abitazione ma Elisabetta non se ne allarmava troppo; era slcura che il demonio non può far nulla al di là dei limiti che Dio gli pone, e stava tranquilla. Anche la moltitudine di topi che infestavano la sua dimora era giudicata di origine diabolica; perché erano veramente tanti e la tacevano da padroni, anche mentre c'era gente, e aggredivano immediatamente qualunque cibo le fosse portato; lo sconciavano, ma non Io manglavano; e uno di questi un giorno le si attaccò al labbro, mentre mangiava.

  • VITA NELL'UMILTA' PENITENTE
Soffrire però soltanto le pene che le venivano inflitte, le sembrava meschino e ingeneroso. L'amore di Dio non aspettò che la sofferenza e la morte andassero verso di lui; se avesse aspettato, saremmo ancora sommersi nei nostri peccati; si fece uomo e venne lui direttamente incontro alle umiliazioni, al dolore, alla morte. E lei non volle essere da meno. Don Giuseppe Valle le regalò un cilizio con punte di fil di ferro ed essa lo portò con gusto, di giorno e di notte, finché non le fu proibito dal padre spirituale. Dormì anche sul pavimento, finché non le fu proibito; ma il suo tavolaccio, a schiena d'asino, non era più morbido del pavimento. D'inverno e d'estate portava sempre la stessa tonaca, che le era stata data dai Francescani di Ara Coeli; logora, rattoppata, ma pulita. Anche la sua soffitta era pulitissima; ma non c'era niente; era esposta al caldo, al freddo, alla pioggia e al vento.
 
Mons. Eliseo Giordano, vescovo di Alghero, testimoniò: “Fui presente un giorno al suo pranzo: un po’ di riso cotto il giorno innanzi con acqua e sale. Mentre mangiava, bolliva già la pentola col riso del giorno dopo. La chiamò una signora e ne approfittai per dare un'occhiata al letto. Lo toccai; era duro come una pietra; ed era così corto, che non ci si sarebbe potuta neanche distendere”.

“Elisabetta era diventata un compendio di malattie
- disse don Giuseppe Valle - ma le piaceva ripetere: "I patimenti sono sempre desiderabili, perché Gesù Cristo, che è il nostro padrone, ne ha sofferti tanti". E Grappelli precisò: “Macerava la sua carne più volte la settimana con strumenti di penitenza”. “Quando stava in famiglia - ricordò il fratello sacerdote – spegneva la candela dopo che le figlie si erano messe a letto; non la videro mai spogliarsi e la mattina – aggiungeva Paola allo zio - non videro mai il letto disfatto”. Ma dormiva a letto?

Rosa Rinaldi, Filippina Catolli e le sorelle Tancioni la pettinavano; Rosa I'aiutava anche a cambiarsi. Ma una volta che stava a casa di Filippina, si chiuse in una cameretta per cambiarsi. Quando ne uscì, Filippina le domandò come avesse potuto farlo da sola. Rispose con un sorriso: “Misericordia di Dio”, ma alla stessa domanda altre volte rispose che la Madonna l'aveva aiutata.



Nel cibo era mortificatissima; non aveva un tavolo sul quale mangiare
e attingeva direttamente alla pentola
con particolari cucchiai e forchette (a destra nella foto)
visto la sua menomazione a muovere le braccia.


Nel cibo era mortificatissima; sembrava che avesse perduto totalmente il senso del gusto. Mangiava una sola volta al giorno e una sola cosa. La roba cotta la conservava finché non la finiva e, un po' come fra Galdino, metteva a cuocere varie cose insieme con un po' di sale, ma non sempre. Tutta la quantità del suo pasto, secondo padre Cammilletti, poteva raggiungere il peso di cinque o sei once. Non aveva un tavolo sul quale mangiare e attingeva direttamente alla pentola con quei suoi particolari strumenti di legno, accoccolata dove le capitava. Un giorno convinse don Luigi Peritoli ad assaggiare il suo cibo ma don Luigi non riuscì a mandar giù neanche un boccone di quel rancidume. Non bevve mai vino e nessuno riuscì mai a farle mangiare dei dolci. Ci si mise un giorno don Giuseppe Grappelli, ma senza effetto, e non ci provò più, per non importunarla.



S. Vincenzo Pallotti distribuisce
il cibo ai poveri di Roma
La lista delle cose che fu vista mangiare è molto breve: riso, un po' di ricotta, le più comuni verdure, castagne e fave lesse, patate, brodo, pane bagnato nell'acqua; ma anche torsoli e bucce di cocomero. Non chiese mai niente e qualche giorno lo passò in digiuno completo. Se ne accorsero gli amici e cominciarono a portarle dei cibi già cotti; ma essa ne approfittò per distribuirli ai poveri; per sé lasciava soltanto un po' di brodo, perché glielo aveva ordinato il padre spirituale.
Oualche volta si fermò a mangiare nel monastero delle Oblate di Tor de' Specchi e qualche altra volta in casa Tancioni - Don-FilippoTancioni era rettore del Collegio Urbano di Propaganda Fide; le Oblate riferirono che Elisabetta non accettò mai nulla di delicato e le sorelle Tancioni dissero che prendeva poco e quel poco non lo sceglieva mai da sé.
Non chiedeva nulla, accettava però tutto con molta gratirudine, perché pensava alla carità di quei poveri che avrebbero goduto di quella carità.  La Società dell'Apostolato Cattolico con la sua Pia Casa di Carità era il principale destinatario di quanto Elisabetta riceveva. Si preoccupava di procurare gioia agli altri e a sé riservava la sofferenza. Così aveva fatto Gesù Cristo. Il quale, essendo Dio, creò tutte Ie ricchezze e tutìi i beni dela terra, ma quando si fece uomo, per sé non riservò che la povertà di Betlem e l'umiliazione e le sofferenze della Croce.


Doni soprannaturali


Urna di San Vincenzo Pallotti
sotto l'altare maggiore di San Salvatore in Onda (Roma).
La Beata Elisabetta Sanna ne presentì la morte.
La santità non sta nei miracoli e non è ad essa necessariamente legata, però, quando un'anima è piena di Dio, spesso Iddio si compiace di manifestare la sua presenza in quella creatura. Elisabetta ebbe in gran copia profezia, consiglio e fortezza. La profezia fu il dono che stupiva di più, perché tutti sapevano che era una contadina, che non sapeva leggere e viveva appartata da tutti gli eventi: ma vedeva al di là dei tempi e delle cose.

Previde la morte di san Vincenzo e ne informò don Francesco Vaccari. Poi il 23 gennaio 1850 - san Vincenzo morì verso Ie 22 del 22 gennaio - al mattino per tempo, prima ancora che la Venerabile uscisse di casa, la signora Maria Carolina Arcieri si recò da lei e nella sua deposizione ai Processi raccontò: “Appena mi vide mi disse: "Che cosa ho visto stanotte! Non so dire se un'ora prima o dopo mezzanotte, è venuto don Vincenzo a salutarmi, dicendomi che se ne andava in Paradiso". Arrivò poco dopo il fratello laico dei Pallottini e confermò che don Vincenzo era morto”.

Piero Marcolini, un mendicante, dichiarò che sua madre in una caduta si era slogata il polso. Il medico glielo rimise a posto, ma la poveretta faceva la lavandaia e avendo ripreso troppo presto il suo lavoro, il polso le si slogò di nuovo. Il medico glielo rimise a posto un'altra volta. Ma sopravvenne ancora una terza slogatura a impedirle il mestiere, e la poveretta disperata ricorse alla Venerabile, che le disse: "Non aver paura, Teresa; non è niente!" La condusse a casa sua, scoprì il quadro della Virgo Potens recitarono le litanie e la licenziò, dicendole che la Madonna le aveva fatto la grazia. E d'allora in poi quel polso ebbe più forza di prima.

Poi fu la volta del figlio. Pietro era tormentato da una cattiva artrite che gli rodeva le ossa. Incontrò Elisabetta in S. Pietro, presso il confessionale del penitenziere di lingua francese, le si avvicinò e, ricordandole che aveva già guarito la madre, le disse di pregare per lui, perché il Signore gli portasse via quei dolori che egli non riusciva più a sopportare. Elisabetta gli disse: “Figlio mio, Dio vuole che tu soffra così. Non ribellarti, non sciupare in un minuto, quanto hai guadagnato in tanto tempo di paziente sofferenza. Dio ti provvederà. Se avrai bisogno di vestiti, Dio ti provvederà; avrai anche abiti di pontefice”.
Pietro disse che negli anni seguenti fu sempre decentemente vestito con abiti ricevuti in carità e anche quell'accenno ad abiti di pontefice si avverò, perché fra gli indumenti ricevuti dal maggiordomo di Pio IX c'era una veste da camera dello stesso Pontefice, e il povero mendicante la indossava nelle solennità.
 
Paolo Giuseppe Palma dopo molte insistenze fattegli da sua madre si reèò dalla Venerabile. L’abitazione era una soffitta; ma c'era là dentro un profumo indefinibile, mai sentito altrove né simile ad alcun altro: ed egli lo sentì tutte le volte che vi entrò: almeno dieci, tra il dicembre del 1852 e il giugno dell'anno seguente. “Appena mi vide – ricordò poi il giovane diventato arcivescovo - mi disse: "Finalmente sei arrivato: l'avevo detto a tua madre che qui dovevi venire. Prendi la sedia e mettiti a sedere". Mi disse che bastava, quanto avevo già offeso il Sienore, che dovevo darmi tutto a Dio, che il mondo era morto per me; ed io cominciai a pensare seriamente a Dio. Non sapevo a quale istituto dare il mio nome. Seppi che duè Gesuiti mi avevano cercato, per propormi di entrare nella Compagnia; ma volli sentire prima la Venerabile ed ella mi disse: "Lascia stare. Dio ti mostrerà dove devi andare". Dopo qualche tempo incontrai un passionista che mi fece leggeie la regola della sua Congregazione. La Venerabile approvò che andassi da loro, ma aggiunse: "Passionista sarai fino alla morte, ma non starai sempre tra i Passionisti". Prima di entrare nel noviziato, mi procurai un reliquiario molto bello e lo portai alla Venerabile, perché lo tenesse un po' nelle sue mani. Essa invece lo pose sull'altarino innanzi all'immagine della Virgo Potens, e s'inginocchiò, pregò e me lo restituì dicendomi: “Te lo leveranno". Infatti il maestro dei novizi me lo prese e non l'ho più riavuto. Quanto mi disse si è tutto avverato. Mentre mi parlava, mi sembrava che fosse rapita in estasi. Aveva un aspetto quasi celeste, la sua voce aveva accenti sovrumani ed il suo volto si illuminava: e questo avveniva ogni volta che parlava di Dio o di cose del cielo”.

E Adelaide Balzani dichiarò: “Non ho sentito mai un predicatore che parlasse del Paradiso, come ne parlava la Venerabile, né ho mai letto niente di simile in alcun libro. Le sue parole per me valevano più di qualunque predica”.

Don Francesco Vaccari, prima di recarsi a Napoli, andò a salutarla ed essa riferì alla signora Adelaide: “Mi ha detto: Ci rivedremo presto; ma io gli ho soggiunto: "In Paradiso". Don Francesco non torna più. Mi dispiace molto, perché avrebbe potuto dare tanta edificazione alla sua comunità”. Infatti don Francesco non trovò a Napoli il recupero di salute sperato. Sua madre lo ricondusse a Fuscaldo, in Calabria, dov'era nato, e qui morì santamente, nel 1856.

Don Luigi Petritoli, già cantore in S. Lorenzo in Damaso, frequentavala casa della Venerabile. Un giorno, di punto in bianco, questa gli disse: “Sarete sacerdote, ma io non farò in tempo a sentir la vostra messa”. Don Luigi scoppiò in una risata, perché lui non aveva mai pensato di diventare prete e non aveva la preparazione scolastica per aspirarvi. Eppure quando fece questa deposizione, egli era sacerdote.

Teresa Sturbinetti, moglie di Antonio Cassetta, era in angoscia, perché suo fratello, I'avvocato, coinvolto nei moti rivoluzionari del 1848-1849, che avevano condotto all'assassinio di Pellegrino Rossi, alla fuga del Papa da Roma e alla proclamazione della Repubblica Romana, era stato esiliato. Marito e moglie, preoccupati ancora più per la condizione spirituale del loro congiunto, si recavano spesso dalla Venerabile e questa accendeva le cande innanzi alla sua Vrgo Potens e li assicurava che il Papa lo avrebbe graziato.
“Una mattina - diamo la parola alla signora Teresa - mentre stavo nella chiesa della Maddalena, mi proposi che, se mio fratello avesse ottenuto la grazia, avrei fatto celebrare un triduo alla Madonna del Rosario nella chiesa di S. Nicola dei Prefetti, ma non ne parlai a nessuno, neanche a mio marito. Invece verso mezzogiotno, mio marito ed io ci recammo dalla Venerabile e, mentre recitavamo le litanie, improvvisamente, nel tono di chi vuol correggere una scorrettezza e con voce ferma, disse: "Il triduo lo farete a questa Madonna, e nella chiesa del SS. Salvatore in Onda, quando io sarò morta; e la grazia verrà dal cielo". Infatti Elisabetia morì, l'immagine della Virgo Potens fu portata al SS. Salvatore in Onda, l'avvocato Sturbinetti fu graziato e il triduo fu celebrato nella chiesa indicata dalla Venerabile.

Adelaide Balzani era sposa da più di due anni e non aveva ancora nessun segno che avrebbe avuto un bimbo. La Venerabile la rassicurò che ne avrebbe avuti tanti. Invece un'infiammazione polmonare la ridusse in fin di vita. Mandò una cameriera ad informarne Elisabetta. La cameriera nel cammino vide sulla strada una palla e la raccattò. Quando riferì ad Elisabettà le ansie della padrona, questa le disse di portarle la palla che aveva raccolto, perché le sarebbe stata utile per far giocare il suo bambino. E tutto si avverò puntualmente: guarì, ebbe un maschio, poi vennero gli altri.


Beato Pio IX

La lettura dei Processi è impressionante per il numero di guarigioni avenute alla recita di una preghiera alla Virgo Potens o alla unzione con I'olio della lampada che le ardeva innanzi. Come è impressionante il numero delle persone che ricorrevano a lei.
 

Papa Pio IX poi I'aveva in grande stima e qualche anno dopo la sua morte, mons. Marongia arcivescovo di Cagliari, conversando con dei preti in S. Girolamo della Carità, a Roma, disse che la Causa di Beatificazione della Venerabile avrebbe avuto un corso più spedito di quella del Pallotti; la previsione non si avverò ma l'affermazione delI'Arcivescovo conserva il suo valore.

 

La morte di Elisabetta


Nel gennaio del 1857 Elisabetta disse varie volte trà le sue amiche: “Quest'anno il Mese di Maggio lo farete voi”.
Luigi Schiboni cercò Elisabetta in S. Pietro; non la trovò; uscì, rientrò, si fermò per una breve adonzione nella Cappella del Sacramento e si diresse alla Porta di S. Marta; e qui la vide macilenta, appoggiata ad un bastone. Elisabetta gli disse: “Vedi, figlio mio, se non passavi tu di qua, non ce I'avrei fatta ad entrare in chiesa, perché non ho più la forza di sollevare la portiera”.
In quei giorni Elisabetta ebbe anche una visione: vide san Gaetano e san Vincenzo Pallotti. Si lamentò con loro perché l'avevano abbandonata. Essi invece Ie dissero che erano venuti per condurla con loro.
La notizia della morte vicina le diede una nuova e più profonda serenità. Si chiuse in se stessa in attesa del grande incontro con lo Sposo. La sua missione sulla terra era ormai compiuta; lo Sposo era alla porta. I suoi pensieri eran tutti per Lui e la festa era ormai vicina. Per chi ama Dio non c'è notizia più bella.
Elisabetta carezzava un solo pensiero: “Ancora qualche giorno, qualche ora, e vedrò il mio Diletto. Mi abbraccerà, lo abbraccerò e sarà mio per sempre!”.

Il 13 febbraio si recò in S. Pietro per l'ultima volta. La sua malattia durò quattro giorni. Il medico diagnosticò un'infiammazione polmonare. I dolori erano tanti e acuti; ma lei se ne stava modesta e raccolta, come se non volesse perdere neppure un attimo del tempo che le era concesso per disporsi al vero incontro. Tutti quelli che accorsero in quei giorni rimasero edificati e inteneriti per tanta virtù.

Il 15 febbraio fu chiamato don Raffaele Melia, il suo confessore. La trovò molto aggravata e le suggerì di ricevere il viatico. Andò lui stesso dal parroco della Basilica, per avvertirlo. Si stava terminando un'adunanza della Confraternita del SS. Sacramento e tutti i Confratelli con le torce e due sacerdoti, il canonico Aquari e I'abate Arceri, amici della Venerabile, si unirono alla processione. Elisabetta accolse il Signore con edificante raccoglimento. Ricevutolo, non parlò quasi più. Si coglievano sulle sue labbra due soli motivi, sempre gli stessi: Grande bontà di Dio! Santissima volontà di Dio! Stette sempre serena in contemplante attesa.

Il giorno dopo, 16 febbraio, lo passò interamente assorta in preghiera. Don Raffaele le propose I'Olio Santo. Ne fu felice e seguì il santo rito con sommo giubilo, disse don Giuseppe Grappelli, che era presente. Don Raffaele le suggeriva di tanto in tanto nuovi spunti di preghiera; le domandò anche se avesse un qualche desiderio da esprimere ed essa chiese di essere seppellita nellà chiesa del SS. Salvatore in Onda, dov'era seppellito il suo Padre e Maestro, san Vincenzo Pallotti.

La mattina del 17 febbraio - era martedì – vedendola un poco più sollevata. don Raffaele pensò di cogliere l’occasione per andare a celebrate la messa. Rimasero presso di lei il canonico Aquari e don Giuseppe Grappelli. I quali però, poiché il trapasso non sembrava imminente, pensarono di andare alle loro case col proposito di tornare poi presto, prima che la baraonda del carnevale prendesse possesso delle strade. Chiamarono tuttavia il viceparroco di S. Piero perché assistesse I'inferma. E così si avverò un’altra profezia della Venerabile la quale aveva detto un giorno ad un'amica: “Vuoi vedere che proprio questo mi assisterà nella mia morte?”. Non era un disappunto; era un modo, tra burlesco e familiare, per far capire che avrebbe preferito d'aver vicino in quell'ora il suo confessore don Raffaele, o il suo direttore spirituale, don Giuseppe, Elisabetta entrò in agonia.  Don Raffaele s'era avviato per tornare a lei, ma sulla porta del Ritiro don Ignazio Auconi, che veniva di là, gli disse che non c'era ragione d'affrettarsi. Invece Elisabetta nella sua soffitta, sorridendo agli Angeli, che le venivano incontro, e allo Sposo, che le tendeva le braccia, si spense.

Il viceparroco lesse le piissime preghiere che accompagnano le anime all'incontro con Gesù Cristo. Il sorriso si stampò sul volto della morta. Non si scosse; si fece più bella. Il viceparroco improvvisò subito il primo discorso di elogio delle virtù di Elisabetta innanzi ai presenti che si affrettatono a baciarne le mani e i piedi. Nessuno ebbe la sensazione di toccare un cadavere: sembrava davvero dolcemente addormentata.
La signora Guidi e la signora Rinaldi presero cura del corpo; le lavarono le mani e i piedi: non oltre, perché, prima di morire, aveva chiesto espressamente di non essere toccata nella persona. La vestirono con l'abito di Terziaria Francescana, che aveva già preparato ella stessa. Un signore polacco, che quei giorni era stato particolarmente cortese, vegliò la salma tutte e due le notti che rimase in casa.
Gli amici della Venerabile quasi non credevano ai loro occhi alla vista della folla di persone che accomeva per vedere la santa. Sembrava perfino impossibile che tanta gente ne conoscesse il nome. Era vissuta ventisei anni a Roma; ma sempre appartata. Era povera e mal vestita. Per molti anni, per via del dialetto, aveva comunicato soltanto con pochissima gente. Non aveva mai fatto nulla che richiamasse l'attenzione degli altri, il suo viso non era attraente; il suo modo di vestire poteva apparire anche spregevole e sciatto; non c'era nulla di umano che potesse giustificare quell'improvviso interesse generale quel plebiscito di simpatia, di ammirazione. Forse era Dio che scuoteva tanta gente, perché la morte di Elisabetta doveva accendere una nuova luce.


Sopra: Cappella della Virgo Potens.
All'interno dell'altare, in occasione della beatificazione,
dopo la prevista ricognizione, nell'agosto 2016,
vi sono stati tumulati i resti mortali della beata,

Sotto: Lapide pavimentale della ex-tomba della b. Elisabetta Sanna

Roma,  chiesa SS. Salvatore in Onda

Il trionfo dei funerali

Il 19 febbraio 1857, mentre la campana della Basilica Vaticana dava, alle nove, il segno per l'ufficio divino e i carri del carnevale - "era il giovedì grasso" - si preparavano a invadere le strade tra la gente impazzita, dal cortile di S. Marta mosse un corteo funebre che prese ad allungarsi nell'immensità di Piazza S. Pietro tra lo stupore delle colonne e dei santi che stavano a guardare.
Aprivano il corteo i Fratelli di S. Margherita da Cortona, poi veniva la croce astile con circa quaranta preti: i Pallottini, i Penitenzieri, il viceparroco di S. Pietro, e un feretro con quattro torce ai lati. Sul feretro, Elisabetta Sanna, con I'abito di Terziaria Francescana e con quel velo che aveva sempre portato sulla testa. 
La cassa era scoperta, e la morta sembrava che dormisse: indisturbata in mezzo al tramestio che la circondava. Dietro la bara, le ragazze, le Suore e le Maestre della Pia Casa di Carità in Borgo S. Agata. la Provinciale e le Suore di Carità dell’Ospedale di S. Spirito e molta folla di donne e di uomini: gente del popolo in gran parte, ma anche tanti benestanti e persone ragguardevoli. La nota che li accomunava tutti era un atteggiamento di rispetto solenne; si sentivano solo le avemmaria del rosario.
Erano due giorni che la Venerabile era morta, e la notizia era corsa e correva: “E’ morta santa Elisabetta, la Santa di S. Pietro!”. La gente si accalcava alle finestre, si univa al corteo. Era un trionfo, più che un funerale. Si attraversò il Ponte S. Angelo, poi la Via Papale, verso la chiesa del SS. Salvatore in Onda, presso Ponte Sisto.
“Erano tre anni che, per via di un'artrite che mi tormentava, non passavo il Ponte - disse il mendicante Pietro Marcolini - invece seguii il corteo fino al SS. Salvatore in Onda, sentii la messa e tornai indietro senza alcun dolore; eppure tra corteo e messa, le ore passate in piedi furono parecchie".
“Vidi dalla finestra l’accompagno della Venerabile - disse Agnese Salandri - era imponente: vi erano molti sacerdoti, moltissimo popolo: e tutti dicevano il rosario”.

E fece eco Margherita Bracco: “Mi trovavo da mia sorella, che stava molto male, quando sentii uno straordinario ronzio di sotto. Mi affacciai alla finestra e vidi un convoglio funebre con molta gente che diceva il rosario. Seppi ch'era l'accompagno di Elisabetta Sanna e che il popolo spontaneamente le rendeva omaggio, per la sua santa vita. Dicevano infatti: "E morta la Santa".

Si passavano la voce da una finestra all'altra e la folla cresceva. Il corteo impiegò due ore per arrivare a Ponte Sisto e, quando giunse a Via dei Pettinari, la strada era stracolma, la chiesa stipata. Don Giuseppe Stirpe stava in chiesa, ma a mezzogiorno, doveva celebrare la messa alla vicinissima Trinità dei Pellegrini; gli ci vollero circa venti minuti, per fare quel centinaio di metri che ci sono tra le due chiese. La cassa fu deposta sul pavimento, innanzi all'altare maggiore e la gente si gettava in ginocchio per baciare i piedi della morta e toccarla con corone e fazzoletti.

Don Giuseppe Grappelli, suo ultimo direttore spirituale, visto il disagio della gente, suggerì di sollevare la cassa. Fu preso il medesimo cateletto, sul quale era stata esposta la salma di san Vincenzo Pallotti. Così sulla stessa bara e nello stesso posto, dove sette anni prima, era stato visto il padre spirituale, venne messa la salma della discepola, che aveva chiesto di essere seppellita presso di lui, nella stessa chiesa. Don Raffaele Melia scrisse che Elisabetta gli sembrava assorta in un dolce sonno.
“Aveva un aspetto bello - disse Luigi Schiboni. Io stesso fui testimone della moltitudine di gente che corse a visitare quel benedetto cadavere”. Che la Venerabile fosse bella nessuno l'aveva mai detto durante la sua vita. Sappiamo infatti che aveva un viso gonfio, che non contribuiva certo a farla bella: ma qui era bella.
La gente s'affollava per avere qualche frammento di reliquia; ne furono dati a migliaia. Il concorso fu così grande e pressante che ci fu bisogno dei gendarmi per frenare e dirigere I' afflusso. Da quel corpo senza vita partiva qualcosa che parlava alle anime. C'era tanta ressa, ma non si sentiva un bisbiglio: sembravano tutti attoniti e come in attesa. L’umiltà dolce della morta, la sua povertà amata, la sua preghiera silenziosa e perenne, riviveva negli occhi e nel cuore di tutti; era l'ora della verità solenne della morte. Molti chiedevano di confessarsi, parecchi vollero fare una confessione generale. Un tale, che si era mescolato alla folla, per compiere impunemente una vendetta, depose sulla bara il pugnale che aveva portato per consumare un delitto.

Restò due giorni Elisabetta nella chiesa innanzi all'altare. Parlò a lungo nel silenzio della morte con la voce di Dio; durante la vita non aveva mai avuto tanta gente tutta insieme, bramosa di sentirla. Molti pittori ne fecero il ritratto. Le porte rimasero sempre aperte, per due giorni.

“Un vescovo
- disse padre Carlo Camminetti – si levò I'anello dal dito e mi chiese di metterlo nel dito della Venerabile”. Il corpo rimase inalterato e flessibile fino a venerdì sera, 20 febbraio, quando fu chiuso nella cassa e seppellito.



Busto della Beata Elisabetta Sanna
conservato presso la
Curia generalizia dei Padri Pallottini


Fatti straordinari avvenuti dopo la sua morte

La vita di Elisabetta non finì con la sua morte. La sua bara fu anzi la cattedra dalla quale fu divulgato il messaggio delle sue virtù e con la forza di chi ha già sostenuto il giudizio di Dio. E Dio stesso contribuì a dare autorità al messaggio col peso delle meraviglie che avvenivano nel nome della Defunta.
“Stavo a Grottaferrata nella mia vigna - raccontò Luigi Schiboni - quando un messo di mia moglie venne a dirmi suo padre stava morendo per via di un'ernia strozzata, che il dottore Sciamanna, da tre giorni, non riusciva a far rientrare. Bisognava ricorrere ai ferri, ma I'età avanzata di mio suocero non consentiva il ricorso a un intervento. Accorsi e gli diedi un'immagine della Venerabile, che egli aveva conosciuto; gli dissi di metterla sulla parte malata e di raccomandarsi a lei: io mi ritirai a pregare. con mia moglie in una camera attigua e cominciammo le litanie. All'invocazione Virgo Poteas il vecchio ci chiamò a gran voce. Corremmo: I'ernia era rientrata. Quando giunse il medico, potei dirgli felice: “Dottore, non c'è più bisogno dei femi. Elisabetta è stata più brava di te!”; al dottore vennero le lagrime agli occhi. Era sera. Il mattino seguente arrivò da Grottaferrata 1a figlia del nostro vignaiuolo, che non aveva mai sentito parlare di Elisabetta, e ci narrò che durante la notte le si era mostrata una donna con un panno in testa, vestita alla foggia della Venerabile e le aveva detto di venire a dirci che la guarigione di mio suocero era avvenuta per sua intercessione”.

“Ho sentito parlare dei miracoli avvenuti per intercessione della Venerabile
- disse Adele Purarelli - e io posso riferirne un altro avvenuto nella mia famiglia. Sei anni fa si ammalò mio cognato. I medici dissero che il caso era disperato e gli fu amminisrato il viatico. Mio marito però andò a pregare sulla tomba della Venerabile. Avevamo in casa la nipotina Matilde di otto anni che accusava mal di denti. Le misi sulla guancia un'immagine della Venerabile e la bimba si addormentò. Dopo circa due ore tornò mio marito. Al rumore la bimba si destò e sentendoci parlare di Elisabetta disse: "Elisabetta è stata qui adesso e mi ha detto che lo zio non morrà". Invece, dopo un certo miglioramento, le cose si misero così male che mio marito, tenendo in mano I'immagine della Venerabile, prese a rimproverarla per la falsa illusione che ci aveva dato.  Durante la notte la bambina accusò di nuovo mal di denti, le fu messa di nuovo I'immagine della Venerabile sulla gengiva, e s'addormentò; quando si svegliò, ci raccontò di essere stata con una donna la quale aveva detto: "Non sono stata bugiarda, come avete detto. Lo zio guarirà". Infatti dopo due giorni, mio cognato fu dichiarato fuori pericolo. La gravità del male era stata constatata dal dottor Lapponi e dai medici Rossoni, Bondi e Baccelli che egli aveva chiamato a consulto”.
Verso la fine di luglio del 1858, Silvia Bastoni si trovò nella mano destra un'escrescenza carnosa grande come un lupino. Il medico la tagliò senza indugio, perché era un flemmone diffuso: ma, nonostante i rimedi applicati, dolori, febbre, cancrena, nausea e sfinimento crescevano. “Io però - dichiarò la teste - non cessai di raccomandarmi alla Virgo Potens per intercessione della Venerabile e misi sulla mano un pezzetto del suo abito. Durante la notte sentii stringermi fortemente la mano. Credetti che me la stringesse mia sorella e gridai: "Caterina!", ma mia sorella dormiva; allora esclamai: "Betta mia!" Al mattino di buon ora venne il dottor Lamberti con due chirurghi dell'ospedale della Consolazione, per amputarmi il braccio; ma guardarono la mano e videro che non c'era nulla da tagliare”.
Il dottor Lamberti dichiarò con giuramento: “Vidi rinchiudersi le articolazioni con tele di nuova formazione e notai nel fondo della piaga dei bottoni carnosi; alla fine di novembre potei notare una totale guarigione, mentre a luglio avrei dovuto amputare I'arto".

Don Paolo Scapaticcì, già più volte nominato, raccontò:
“Silvestro Morelli, mio penitente, uomo tranquillo, s'ammalò e diventò stranissimo anche con me. Dovetti consigliare a sua moglie, per evitare il peggio, di starsene di giorno dai suoi e di tornare dal marito a sera ben tardi. Era malato di tisi ed io, sebbene vedessi che le mie visite non gli erano gradite, andavo di tanto in tanto a visitarlo. Un giorno però mi mandò a chiamare e mi disse:  - "Una donna è venuta ad offrirmi un'immagine di Elisabetta Sanna; ma io I'ho buttata lì sul letto". Io allora non avevo un gran concetto della Sanna e gli dissi freddamente: - "Tu sei devoto della Madonna, raccomandati a leí; però è sempre buono raccomandarsi ad un servo di Dio per ottenere una grazia". Al che egli soggiunse: - "Senta che cos'è avvenuto: dopo che quella donna mi diede I'immagine, mi addormentai e nel sonno vidi una donna vestita in modo strano: una specie di fagotto sulla testa, ma non distinguevo la faccia. Poi m'accorsi che era la stessa donna della quale avevo gettato I'immagine. E questa mi si avvicinò e mi disse che la mia stranezza è dovuta al fatto che il Signore vuole da me una maggiore sincerità nelle confessioni e ha aggiunto con gravità: "Tu ti stai figurando una felicità in questo mondo e fai di tutto per conseguirla; ma questa felicità è fugace e non è mai piena né vera. Tu conti di dover vivere ancora trenta o quarant'anni, perché sei giovane, ma tra venti o al più trenta giomi troverai la vera felicità" Ciò detto scomparve. Mi svegliai. Ripresi quell'immagine, vi riconobbi la Venerabile e la misi, come vede, sotto il cuscino e ora voglio fare la mia confessione.
Fece una confessione edificante, e mi pregò di aiutarlo a prepararsi alla morte. Andai poi più volte a visitarlo e ne fu sempre felicissimo. Dopo venticinque giorni mi ricordò che ne mancavano cinque àlla scadenza. Gli promisi che sarei tornato; ma proprio il trentesimo giorno ebbi una sessione di esami alla Sapienza e non potei mantenere I'appuntamento. Corsi da lui appena fui libero e lo trovai assopito. Il polso era molto irregolare. Lo chiamai per nome. Mi guardò con occhi vitrei e mi disse: "Professore, ci contavo su questo atto di amicizia e di carità". Si confessò, ricevette con molta devozione I'ultima assoluzione, ricadde in letargo e poco dopo morì. È vero, io non avevo un gran concetto della Venerabile Sanna, ma, dopo quello che ho visto con i miei occhi, mi sono convinto che Elisabetta è stata veramente una santa”.

Francesco Amoroso, La handicappata che diventa Apostolo, tip. Città Nuova della P.A.M.O.O.M., Roma, 1992.
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